Alcuni sono orfani, altri si trovano ancora in condizione di prigionia con le madri. Il rischio è che possano essere vittime di ulteriori ondate di radicalizzazione o possano finire reclutati dalle milizie jihadiste schierate al fianco delle truppe turche
Alcune vedove o spose dei foreign fighters sono già fuggite dai campi nel nord della Siria. Altre si stanno organizzando per tentare di tornare a casa. Ora che le forze curde perdono il controllo dei prigionieri dell’Isis, si ripropone un tema che fin qui l’Europa ha tentato di ignorare.
A preoccupare le organizzazioni per i diritti umani come Save the Children, è il destino dei bambini nati da queste donne e dai miliziani dell’Isis. Alcuni sono orfani, altri si trovano ancora in condizione di prigionia con le madri. Il rischio è che, qualora dovessero rimanere in Siria, possano essere vittime di ulteriori ondate di radicalizzazione o possano finire reclutati dalle milizie jihadiste schierate al fianco delle truppe turche.
Secondo il Guardian, la Gran Bretagna, dopo aver negato a questi cittadini il rientro, sta muovendo per rimpatriare i minori, almeno quelli rimasti senza genitori.
Qualche segnale in queste ore arriva anche da Parigi e da Bruxelles. Settimana scorsa il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian è volato a Bagdad a trattare la creazione di un tribunale congiunto con gli iracheni per giudicare le donne francesi che si sono unite all’Isis (il governo francese ha fin qui preferito pagare gli iracheni per la custodia dei foreign fighters). Da Berlino e da Bruxelles hanno invece tentato di sfruttare le 120 ore concesse ai curdi da Ankara per evacuare i loro «prigionieri». Insomma, come al solito, sul tema dei foreign fighters, nonostante gli appelli statunitensi e curdi, l’Europa procede in ordine sparso, cercando di mettere una toppa senza una linea comune.
Ora però lo scenario è decisamente mutato. I curdi hanno problemi ben più gravi da gestire mentre per i turchi la fuga di qualche centinaia di donne e bambini non rappresenta una priorità. Tuttavia non va dimenticato un dato: questi prigionieri potrebbero un giorno tornare in Europa. Che lo facciano al di fuori del controllo europeo non solo è lesivo dei loro diritti. È anche un pericolo per tutti noi.
Marta Serafini
Qualche segnale in queste ore arriva anche da Parigi e da Bruxelles. Settimana scorsa il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian è volato a Bagdad a trattare la creazione di un tribunale congiunto con gli iracheni per giudicare le donne francesi che si sono unite all’Isis (il governo francese ha fin qui preferito pagare gli iracheni per la custodia dei foreign fighters). Da Berlino e da Bruxelles hanno invece tentato di sfruttare le 120 ore concesse ai curdi da Ankara per evacuare i loro «prigionieri». Insomma, come al solito, sul tema dei foreign fighters, nonostante gli appelli statunitensi e curdi, l’Europa procede in ordine sparso, cercando di mettere una toppa senza una linea comune.
Ora però lo scenario è decisamente mutato. I curdi hanno problemi ben più gravi da gestire mentre per i turchi la fuga di qualche centinaia di donne e bambini non rappresenta una priorità. Tuttavia non va dimenticato un dato: questi prigionieri potrebbero un giorno tornare in Europa. Che lo facciano al di fuori del controllo europeo non solo è lesivo dei loro diritti. È anche un pericolo per tutti noi.
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