Esecuzioni, sparizioni, milizie che spadroneggiano. Però le manifestazioni contro la corruzione, dopo 450 morti e diecimila feriti, non si placano. "Resteremo in piazza, sempre", dicono i militanti dal quartier generale nel garage Sinak.
L'entrata del garage Sinak è un cancello chiuso da un lucchetto. Di fronte, seduti su sedie di plastica due ragazzini: cappellini con visiera in testa, ai piedi scarpe da ginnastica lise. Sono il servizio d'ordine dell'autorimessa, uno dei due edifici occupati dai manifestanti iracheni che dall'inizio di ottobre stanno animando proteste di massa nella capitale e nel resto del paese. Sorvegliano chi entra e chi esce, controllano borse e giacche, documenti e identità per evitare che si infiltrino sconosciuti in combutta con le milizie. Per evitare un altro massacro al garage Sinak.
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso gruppi di uomini armati non identificati hanno assaltato l'edificio uccidendo venti manifestanti e ferendone più di cento. Un attacco sanguinoso, coordinato, parte della campagna di violenza e intimidazione contro i manifestanti che hanno riempito le strade.
Il dottor Muslim Ben Aqeel Ismael al garage Sinak conosce uno per uno i sopravvissuti, era qui anche la mattina dopo il massacro, tra le stanze date alle fiamme sul tetto e gli angoli delle pareti ancora sporchi del sangue delle vittime. Stringe la mano a Hussein, che quella notte era lì. È stato pugnalato alla mano e al braccio destro. Alza la manica della tuta per mostrare i segni delle ferite.
I pochi che restano a Sinak, oggi, sono quelli che hanno visto. Erano lì quando i corpi senza vita dei compagni venivano lanciati dal sesto piano del garage, e una dottoressa trascinata via, uccisa, il suo corpo abbandonato sul ponte antistante. Chi resta oggi a Sinak aspetta il ritorno dei manifestanti picchiati e catturati. Ammesso che ritornino. Mohammed ha il braccio fasciato da una benda, un panno blu lo sostiene intorno al collo.
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso gruppi di uomini armati non identificati hanno assaltato l'edificio uccidendo venti manifestanti e ferendone più di cento. Un attacco sanguinoso, coordinato, parte della campagna di violenza e intimidazione contro i manifestanti che hanno riempito le strade.
Il dottor Muslim Ben Aqeel Ismael al garage Sinak conosce uno per uno i sopravvissuti, era qui anche la mattina dopo il massacro, tra le stanze date alle fiamme sul tetto e gli angoli delle pareti ancora sporchi del sangue delle vittime. Stringe la mano a Hussein, che quella notte era lì. È stato pugnalato alla mano e al braccio destro. Alza la manica della tuta per mostrare i segni delle ferite.
I pochi che restano a Sinak, oggi, sono quelli che hanno visto. Erano lì quando i corpi senza vita dei compagni venivano lanciati dal sesto piano del garage, e una dottoressa trascinata via, uccisa, il suo corpo abbandonato sul ponte antistante. Chi resta oggi a Sinak aspetta il ritorno dei manifestanti picchiati e catturati. Ammesso che ritornino. Mohammed ha il braccio fasciato da una benda, un panno blu lo sostiene intorno al collo.
È stato colpito da un proiettile, un pezzo è ancora all'interno del braccio. Ma in ospedale Mohammed non va. Perché ha paura di essere schedato. "Chi veniva trasportato negli ospedali pubblici all'inizio delle proteste", dicono, "non è mai tornato indietro".
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi
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