Pagine

venerdì 31 gennaio 2020

Proc. Gen. Cassazione Salvi: "I Decreti Sicurezza, creano effetto criminogeno e di insicurezza per la mancanza di politiche di ingresso e di pieno inserimento sociale dei migranti"

AdnKronos
Proc. Gen. Cassazione Salvi
"Le scelte sulle politiche migratorie e di ingresso nel territorio dello Stato competono al Legislatore e al Governo, purché nel quadro di compatibilità con le norme costituzionali e pattizie, prima tra tutte l’obbligo che il nostro Paese ha assunto per la protezione internazionale di coloro che ne hanno potenzialmente diritto". 

E’ quanto si legge nella relazione del Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. 
"In altra parte di questo intervento si esaminano alcuni aspetti dei c.d. decreti sicurezza. Ma se di sicurezza si parla, è bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano" 
ha sottolineato Salvi.
"Mentre da anni sono chiusi i canali di ingresso legali e ormai non viene nemmeno più redatto nei tempi prescritti il decreto flussi - si legge- , la cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento (sanitario, di insegnamento dell’italiano, di formazione professionale, di alloggio) creeranno tra breve un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società, rese cioè clandestine. Ciò deve essere evitato per molte ragioni, ma per una sopra ogni altra: rendere il nostro Paese ancora più sicuro".
Continua a leggere l'articolo >>>

La Grecia vuole costruire un ‘muro galleggiante’ tra l'isola di Lesbo e la Turchia per fermare l'arrivo dei profughi e aumenterà il rischio di morti in mare

OnuItalia
Amnesty International ha denunciato con forza la proposta del governo greco di collocare un sistema di dighe galleggianti della lunghezza di 2,7 chilometri al largo delle coste dell’isola di Lesbo per scoraggiare nuovi arrivi di richiedenti asilo dalla Turchia.



Il sistema di dighe galleggianti è descritto come una delle misure adottate nel contesto di un piano più ampio teso a difendere la frontiera marittima greca ed evitare ulteriori arrivi

Nel 2019 quasi 60.000 persone hanno raggiunto il territorio greco via mare, poco meno del doppio rispetto al 2018. Tra gennaio e ottobre, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) ha registrato 66 morti lungo la rotta del Mediterraneo orientale.

Secondo Massimo Moratti, direttore delle ricerche sull’Europa di Amnesty ”questa proposta evidenzia una preoccupante escalation dei tentativi in atto da parte del governo di Atene di rendere ancora più difficile per i richiedenti asilo e i rifugiati arrivare sul territorio greco e renderà ancora più pericoloso il viaggio di coloro che cercano la salvezza disperatamente”. 

Per Amnesty il progetto pone importanti interrogativi rispetto alla capacità delle organizzazioni di soccorso di continuare a prestare la propria assistenza per salvare la vita di chi intraprende il pericoloso viaggio in mare alla volta di Lesbo; e ”il governo deve urgentemente fornire dettagli operativi e chiarire quali indispensabili misure di sicurezza saranno adottate per garantire che questo sistema non costi altre vite umane”.

Messico, il muro della vergogna di Trump spazzato via dal vento. La natura corregge gli errori degli uomini.

Io Donna
Il forte vento ha abbattuto parte del muro di frontiera tra Stati Uniti e Messico per il quale il presidente americano Donald Trump ha lottato strenuamente

Se non lo capisce l’uomo che sta facendo qualcosa di sbagliato, ci pensa la natura. E siccome costruire muri è ingiusto, la natura li abbatte senza chiedere il permesso.

Questa volta è stato un forte vento ad abbattere parte del muro di frontiera tra Stati Uniti e Messico. Alcuni dei pannelli sono caduti sugli alberi dalla parte del lato messicano del confine con la California. Fortunatamente senza causare danni né feriti.

Donald Trump ha lottato strenuamente per ottenere l’allungamento di questa disumana barriera e, in un suo assurdo discorso, la definì una “grande e bella parete, dura”, “praticamente impenetrabile” e abbastanza calda da “friggere un uovo”.

Un ufficiale della dogana e della protezione delle frontiere a El Centro, ha dichiarato alla Cnn: «Questi pannelli sono stati recentemente installati e non erano ancora stati testati per resistere al vento. Per fortuna, non ci sono stati danni, né feriti».
Il muro della vergogna
Il muro messicano o muro di Tijuana, è conosciuto anche come “muro della vergogna”: il suo obiettivo è quello di rafforzare la barriera transfrontaliera in modo da bloccare il passaggio di migranti provenienti da Honduras, Guatemala e altri Paesi dell’America latina.

Trump e i suoi muri
Il muro fu una delle promesse elettorali di Trump, ma non è stato il tycoon a cominciarlo. La barriera, che si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego (le dimensioni sarebbero paragonabili solo a quelle della Grande muraglia cinese), ha iniziato ad essere costruita nel 1990 durante la presidenza George H. W. Bush.

Poi nel 1994 venne ulteriormente sviluppata durante l’era Clinton aggiungendo una presenza fissa di forze di polizia al confine.

5mila persone hanno perso la vita
È composta da lamiera metallica alta dai due ai quattro metri, ed è dotata di illuminazione ad altissima intensità. Una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, è connessa via radio alla polizia di frontiera statunitense che, inoltre, utilizza un sistema di vigilanza permanente effettuato con veicoli ed elicotteri armati.

Trump sta spendendo centinaia di milioni di dollari per finire la costruzionedi questa barriera. L’obiettivo è arrivare alla valle del Rio grande.

Secondo i dati della Commissione nazionale per i diritti umani del Messico, sono morte 5mila persone nel tentativo di superare il confine alla ricerca di un’esistenza più dignitosa.
Non solo disumana
Non solo una misura assolutamente inaccettabile dal punto di vista umano, ma anche dal fortissimo impatto dal punto di vista ambientale: il muro infatti, sta distruggendo l’Organ Pipe Cactus National Monument, il monumento nazionale degli Stati Uniti d’America e riserva della biosfera UNESCO situato nell’estremo sud dell’Arizona.

giovedì 30 gennaio 2020

Migranti, l'Unhcr costretto a sospendere l'attività nel centro di Tripoli che ospita i rifugiati in transito. "Troppo pericoloso"

La Repubblica
Mentre il ministro degli Esteri Di Maio annuncia il prossimo avvio della negoziazione con Al Serraji per migliorare il Memoramdum con la Libia, lo staff dell'agenzia dell'Onu abbandona la struttura in cui nelle ultime settimane hanno trovato rifugio 1700 persone.


Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio assicura che "nei prossimi giorni l'Italia avvierà il negoziato per Al Serraji per portare avanti la condizione dei migranti in Libia" ma intanto, alla vigilia del rinnovo per tre anni alle vecchie condizioni del Memorandum, l'Unhcr annuncia da Ginevra l'interruzione delle operazioni nel centro di transito di Tripoli nel quale, nelle ultime settimane, hanno trovato rifugio oltre 1700 migranti. Troppo pericoloso.

La decisione, spiega una nota dell'ageniza Onu per i rifugiati, è stata presa a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner, in considerazione anche dell'aggravarsi del conflitto a Tripoli, in Libia. 

"Purtroppo l'Unhcr non ha avuto altra scelta se non quella di sospendere le operazioni presso la Gdf di Tripoli, dopo aver appreso che le esercitazioni di addestramento, che coinvolgono personale di polizia e militare, si svolgono a pochi metri dalle strutture che ospitano i richiedenti asilo e i rifugiati", ha detto Jean-Paul Cavalieri, capo della missione in Libia. "Temiamo che l'intera area possa diventare un obiettivo militare, mettendo ulteriormente in pericolo la vita dei rifugiati, dei richiedenti asilo e di altri civili", ha aggiunto.


L'Unhcr ha iniziato a trasferire decine di rifugiati altamente vulnerabili, che sono già stati identificati per il reinsediamento o l'evacuazione in paesi terzi, dalla struttura in luoghi più sicuri. L'Unhcr faciliterà anche l'evacuazione di centinaia di altre persone verso le aree urbane. Tra questi, circa 400 richiedenti asilo che avevano lasciato il centro di detenzione di Tajoura dopo che questo era stato colpito da un attacco aereo lo scorso luglio, e circa 300 richiedenti asilo del centro di detenzione di Abu Salim che sono entrati nel Gdf lo scorso novembre dopo essere stati rilasciati spontaneamente dalle autorità. Tutti riceveranno assistenza in contanti, beni di prima necessità e assistenza medica presso il Community Day Centre dell'Unhcr a Tripoli


Alessandra Ziniti

Immigrazione: in Italia e in Europa c’è bisogno di una svolta - Appello di Pietro Bartolo, Pierfrancesco Majorino, Elly Schlein

pierfrancescomajorino.eu
In Italia e in Europa c’è bisogno di una svolta radicale in materia di politiche di immigrazione.
Per questo rivolgiamo al governo un appello preciso: ci si faccia carico di scelte più nette rispetto a quelle operate fin qui.

Serve una nuova legge quadro su di una materia che fin qui è stata affrontata attraverso le lenti dell’insicurezza, della paura, della fragilità dei progetti di inclusione e integrazione.
E serve una nuova legge sulla cittadinanza che cancelli l’odiosa differenza tra bambini che nascono e crescono in questo Paese e che devono essere sempre riconosciuti come italiani.
La cancellazione dei decreti Salvini, il superamento della Bossi-Fini, il potenziamento dell’accoglienza diffusa, il rilancio di SPRAR, un grande piano nazionale per la piena integrazione, il sostegno al soccorso in mare, la nuova gestione dei flussi contro qualsiasi illegalità, l’annullamento del memorandum con la Libia in cui la situazione non garantisce il rispetto diritti fondamentali e la cancellazione di quella autentica vergogna costituita dai campi di detenzione: tutto ciò deve e può essere il cuore di una nuova pagina da scrivere immediatamente attraverso il nostro Paese.
Un Paese che, ovviamente, non va lasciato solo.
Anche per questo è sempre più necessario che in sede europea si approvi davvero la riforma di “Dublino” e vinca la logica della comune responsabilità nella gestione dei processi di accoglienza e non quella della continua deresponsabilizzazione che aiuta i trafficanti e tratta i migranti come un nemico da respingere.

Di Pietro Bartolo, Pierfrancesco Majorino, Elly Schlein

mercoledì 29 gennaio 2020

Corridoi umanitari - Le comunità ebraiche italiane aderiscono al progetto di Sant'Egidio e FCEI e accolgono la prima famiglia siriana a Milano

santegidio.org
Martedì 28 gennaio è arrivata a Milano una famiglia siriana, , accolta in Italia, con cartelli di "benvenuto", grazie ai corridoi umanitari. L'accoglienza delle sette persone, 
di religione musulmana,  (genitori con quattro bambini e un parente) è sostenuta dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e dalla Comunità Ebraica di Milano, i cui membri collaboreranno insieme a Sant'Egidio per l'inserimento nel capoluogo lombardo. 


Si amplia così l'alleanza tra comunità di credenti che hanno realizzato il progetto promosso dal 2016 da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese.

Continua a leggere l'articolo >>>

martedì 28 gennaio 2020

Aumentano i migranti in fuga dall'inferno della Libia. Solo le navi delle Ong rispondono agli sos. 643 migranti salvati. Taranto porto sicuro per 403 profughi sulla Ocean Viking

La Repubblica
Centinaia di persone in fuga dai centri di detenzione libici, quindici barche con 900 migranti a bordo soccorse in 72 ore dalle navi umanitarie e dalla marina maltese mentre la guardia costiera libica si limita a rilanciare gli Sos sostenendo di non avere mezzi a disposizione. 
L’ultimo salvataggio all’alba di oggi dalla Open Arms, tornata nel Mediterraneo nonostante la nave in precarie condizioni, a dare manforte alle altre due Ong presenti, la Ocean Viking di Sos Mediterranee e Msf e la Alan Kurdi della tedesca Sea eye che fanno la spola da sud a nord con interventi multipli. Centodue stamattina e 56 ieri sera i migranti salvati da Open Arms. E adesso sono 643 i migranti a bordo delle tre Ong, 407 (quelli sulla Ocean Viking) dovrebbero sbarcare a Taranto dove la nave si sta dirigendo dopo aver avuto l’autorizzazione del Viminale.

Una situazione di estrema criticità che riapre molti interrogativi alla vigilia della riconferma degli accordi tra Italia e Libia senza nessuna delle modifiche che erano state annunciate dal governo italiano come condizione per il proseguo del patto.

Alla ripresa massiccia di partenze dalle coste libiche negli ultimi giorni ha fatto da contraltare una quasi totale assenza di motovedette della guardia costiera libica e le ripetute richieste di soccorso di imbarcazioni in difficoltà diffuse attraverso il centralino Alarm phone ai centri di ricerca e soccorso di Tripoli e talvolta anche di Malta nelle zone Sar libica e maltese sono rimaste inascoltate. Solo le navi Ong hanno risposto alle chiamate salvando la vita a oltre 600 persone che adesso a bordo delle tre navi, ancora in acque internazionali, aspettano di sapere dove poter sbarcare. “Nel Mediterraneo in questo fine settimana centinaia di persone sono sopravvissute solo grazie all’intervento delle navi umanitarie. E’ evidente ilvuoto spaventoso di capacita’ di ricerca e soccorso”, dice Carlotta Sami portavoce dell’Unhcr.

Fino ad ora l’unico porto concesso è stato quello di Taranto, ancora in attesa di risposta la Alan Kurdi e la Open Arms mentre la commissione europea lavora sulla ricollocazione dei migranti.

E domenica prossimo, nel silenzio più assoluto sulle annunciate modifiche agli accordi Italia-Libia che avrebbero dovuto essere la condizione per la continuità dell’impegno italiano, il memorandum verrà rinnovato per i prossimi tre anni. Con l’Italia che continuerà a fornire uomini, mezzi e soldi alla guardia costiera libica per riportare i migranti in un Paese in guerra nei centri di detenzione dove le agenzie delle Nazioni Unite non sono in grado di garantire il rispetto dei diritti umani.

Alessandra Ziniti

Libia - Alla rotonda Fashelom, a Tripoli, il «discount del soldato»: qui le milizie reclutano tra i giovani che attendono di partire. «Vuoi un lavoro da muratore? Vai in prima linea»

Corriere della Sera
I ghanesi, no. «Non sanno neanche come si tiene in mano un mitra». I ciadiani, sì. «Quelli si sentono libici e hanno voglia di combattere». Anche gli eritrei vanno bene. «Sono soldati nati». Il meglio però restano i sudanesi: «Molti sono arrivati qui come mercenari e per loro è facile prendere un compaesano e reclutarlo nelle milizie…». 
La rotonda Fashelom, alla periferia di Tripoli, è il discount del soldato. L’outlet del mercenario low cost. Il self service del migrante da arruolare. 

Alle sei del mattino la scena è identica a questa rotonda e in tutte le città della Libia, in Tripolitania e in Cirenaica, al mercato dell’ovest di Sarraj e alla fiera dell’est di Haftar. Si cerca carne da cannone. E l’ufficio di collocamento per la guerra è ovunque, fra i palazzi in costruzione o nel retro dei bar. In Libia, al contrario di quel che si crede, non è più d’un migrante su dieci a stare nei centri di detenzione: gli altri sono per le strade, liberi di sognare l’Italia e poco altro, spesso in condizioni non meno terribili.

di Francesco Battistini

Sami Modiano, sopravvissuto al lager nazista: "Da Auschwitz-Birkenau non sono mai uscito"

Osservatore Romano
Aveva appena otto anni Sami Modiano quando delle leggi razziali sentì l’odore prima dei provvedimenti statali. Viveva, come tanti altri bambini, sull’isola di Rodi, “l’isola delle rose” che avrebbe rivisto dopo diversi anni, ma con occhi sfioriti. Oggi ne ha 89, ma non dimentica il momento in cui la segregazione razziale aleggiava fra i banchi di scuola, fredda e concisa come l’espulsione che gli comunicò il maestro elementare: «La mia infanzia finisce a otto anni. 
Frequentavo la terza elementare, quando sono stato espulso dalla scuola e da quel momento ho avuto il mio primo il dolore. Il desiderio mio era quello di poter studiare, ma le leggi razziali mi hanno tolto questa possibilità». Così, nell’isola dove la brezza poteva spazzare le nubi, si radica un’ombra che lo rende diverso: «Non essere un bambino uguale a tutti gli altri è una traccia che mi è rimasta da allora».

Per Sami Modiano la tragedia della deportazione inizia con un’infanzia interrotta, che lo trasforma da innocente a testimone gravato dalla colpa: «Avevo 13 anni e mezzo, ero un ragazzino con la famiglia e una grande comunità ebraica di Rodi, che contava circa 2 mila persone. Della mia famiglia ho perso circa 40 persone, fra cui un padre e una sorella, ma in realtà ne ho perse 2 mila, perché alla fine ci salvammo in trentuno e io ero il più piccolo». Può la colpa dell’umanità pesare sulle gracili spalle di un tredicenne? È una domanda che Sami Modiano si è fatto spesso nella vita, senza trovare risposte. Fino al 2005: «Dopo 60 anni ho rimesso piede ad Auschwitz-Birkenau. Mi resi conto di non aver dimenticato una virgola, mi sono trovato là come se fosse la prima volta». S’incrina la sua voce e le sue parole si impastano di un dolore sempre più universale: «Ho visto, ho visto, ho visto» ripete tre volte, e nelle pause c’è tutta una vita cancellata nei campi di sterminio: «Quando mi chiedono: Lei è un sopravvissuto? Io rispondo “Sì, lo sono”, ma sono ancora lì, ad Auschwitz-Birkenau, non sono mai uscito di lì. Ero un ragazzo: come posso cancellare quello che ho visto?».

Dopo decenni, ha fatto sua la missione di ricordare, e in questo processo intrecciato di vita e morte, decide ogni giorno di dedicarsi ai più giovani: «Da quando accompagnai 300 studenti delle scuole superiori di Roma al campo di concentramento, nonostante il dolore mi sono sentito sostenuto dai ragazzi. Sono loro a darmi quello di cui ho bisogno, e per loro continuerò fino a quando Dio mi darà la forza di continuare, perché sono loro che dovranno fare in modo che questo non succeda mai mai mai più». Gli chiedo se in quello che chiama “cimitero di Auschwitz-Birkenau” abbia mai interpellato Dio: «Davanti a quello che ho vissuto nel campo, ho perso la fede, perché mi chiedevo dove fosse Dio nei bambini innocenti che venivano uccisi in modo atroce? È stato un interrogativo che ho portato sempre con me, fino a quando non ho ricevuto gesti umani che mi hanno fatto riscoprire la fede».

Sami Modiano ha visto Dio nella stretta di mano di un ragazzo avvenuta nel momento di più profonda solitudine e disperazione. Da quelle mani strette nell’inferno, sarebbe nata una grande amicizia con Piero Terracina: «In quel momento ci siamo aiutati nonostante la consapevolezza che non saremmo usciti vivi da lì. In quel campo della morte siamo arrivati ad adottarci come fratelli, sapendo che saremmo morti, ma il Padre Eterno ci ha dato la vita, e da quel momento in poi la nostra amicizia è stata qualcosa che non si può spiegare, un mistero insondabile che ci lega tuttora, oltre la morte». La sua voce è rotta dalle lacrime nel ricordo dell’amico recentemente scomparso. Quando parla di Dio, Sami Modiano lo chiama “Padre”: «Siamo tutti figli di Dio, siamo tutti esseri umani senza alcuna differenza. Questo è il nostro compito, questa è la nostra missione» ripete ai ragazzi che, ormai da 15 anni, accompagna a visitare il campo di concentramento in cui ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza.

«Per questo ho vissuto» è la sua biografia. Una risposta concisa a una domanda che lo ha accompagnato per tutta la vita: «Ecco perché sono uscito vivo. Perché devo cercare di trasmettere ai giovani. Scrutando le loro lacrime in quel cimitero che si chiama Birkenau, davanti alle camere a gas ho giurato che avrei continuato. Se sarà il momento di andare via, me ne andrò sereno, consapevole che quello che ho fatto, l’ho fatto con grande, doveroso impegno».

Marco Grieco

domenica 26 gennaio 2020

Iraq. Oltre 600 i manifestanti uccisi, 12 solo nell'ultima settimana

Corriere della Sera
Amnesty International ha aggiornato a oltre 600 il numero dei manifestanti uccisi in Iraq dall'ottobre 2019 e ha denunciato un forte aumento della repressione, con 12 manifestanti uccisi solo nell'ultima settimana a Baghdad, Bassora, Kerbala e Diyala.

La campagna di morte delle autorità irachene è dunque ripresa, con l'impiego di proiettili veri e delle micidiali granate a uso militare di produzione serba e iraniana. Uno degli episodi più gravi è accaduto il 21 gennaio a Baghdad sul cavalcavia della strada a scorrimento veloce Mohammed al-Qasim, presidiata da veicoli blindati con le insegne di un'unità speciale d'élite che risponde direttamente al primo ministro.

I militari che stavano sul cavalcavia hanno preso alcuni manifestanti e li hanno scaraventati giù, da sette metri di altezza. Un fotografo ha ripreso un uomo che improvvisa una danza della vittoria dopo aver sparato una granata dal cavalcavia contro i manifestanti che si trovavano sulla strada sottostante. La sera del 21 gennaio, sempre a Baghdad, la Guardia presidenziale ha invaso le strade di al-Dora, un quartiere residenziale e commerciale situato nella zona meridionale della città.

Questa è la testimonianza di un ragazzo che ha preso parte alle manifestazioni sin da ottobre: "Le forze presidenziali erano presenti in massa al posto di blocco. A un certo punto hanno iniziato a sparare in aria e a catturare persone, giovani soprattutto. Siamo scappati in direzione di via al-Tuma, riparandoci nelle caffetterie, nei negozi e in una palestra. Ci hanno inseguiti sin lì portando via alcuni di noi e le persone che cercavano di fermarli. Poi hanno strappato i telefonini dalle mani di coloro che stavano riprendendo la scena e hanno arrestato chi opponeva resistenza". A Bassora, le notti del 21 e del 22 gennaio le forze di sicurezza hanno disperso le manifestazioni con brutali pestaggi e usando proiettili veri.

Ecco una testimonianza raccolta dalla città: "Le forze di sicurezza arrivavano verso le 23 o intorno alla mezzanotte, quando i manifestanti erano di meno, e iniziavano a sparare. Come se fossero venute lì per ucciderci. Ho visto molte persone venire immobilizzate a terra e picchiate, alcuni avevano 14-15 anni. Quando tornavano nella zona dove era concentrato il grosso delle proteste, ci mostravano i segni delle bastonate e delle manganellate sulla schiena".

Riccardo Noury

Migranti - Mons. Vincenzo Paglia: "I Cpr vanno superati con l'integrazione, ce lo insegna Papa Francesco"

Il Riformista
L’inferno è lasciare le persone al freddo nel Mediterraneo o abbandonate a loro stesse nei centri di accoglienza, alla mercé della disperazione, della noia, della mancanza di prospettive, delle procedure burocratiche infinite, degli altri immigrati o, peggio, di abusi da parte di chi dovrebbe tutelare e proteggere. 


Le condizioni inumane che a volte si verificano nei Cpr (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) non rispettano spesso la dignità della persona. Un paese europeo dalla lunga tradizione civile, giuridica e cristiana può e deve garantire uno standard di trattamento degno del valore di ogni singolo individuo.

La dimensione umana di accoglienza dei più deboli è un principio fondante dell’umanità. Se manca, è una tragedia per tutti. La presenza dei migranti crea problemi da affrontare per cui cercare soluzioni condivise tra tutte le forze politiche italiane ed europee. Siamo tutti europei e l’intero continente non potrà esimersi dal sentire la presenza dei migranti anche come una opportunità, non solo come un problema. È ovvio che non c’è alcuna emergenza, non c’è una invasione, se si ha l’onestà di guardare ai dati effettivi. C’è un allarme sociale creato ad arte, amplificato per fini specifici, che sta trasformando l’Italia e gli italiani in un paese inospitale, un paese che dimentica le radici umane e la grande tradizione umanistica. E dimentica di essere stato a sua volta un popolo di migranti.

Serve chiarezza: come essere umano, come vescovo, come credente, sottolineo che l’emigrazione è un fenomeno universale. Gesù e la sua famiglia sono stati emigranti, gli ebrei erano una popolazione nomade, l’Europa del Medioevo è stata fondata dalle popolazione provenienti dalle steppe asiatiche. Le migrazioni, gli spostamenti dei popoli, sono alla base della civiltà umana, della presenza dell’uomo e della donna sul pianeta.

La politica ha una responsabilità nel costruire e garantire modalità di convivenza uguali per tutti, opportunità per tutti. Un salto in avanti sarebbe avere la legge sullo ius culturae. Nelle vicende come il centro di Gradisca, prima di dire che non devono accadere, dobbiamo essere sicuri che la legalità, il rispetto delle persone, la capacità di accogliere, vengano scolpiti come princìpi indelebili negli operatori e in tutti i cittadini. La sfida portata dalle migrazioni ci fa capire che il mondo è complesso e non si risponde con i muri, con le barriere, con i Cpr ma con rapide procedure di identificazione, inserimento, prospettiva lavorativa e integrazione, rispondendo così alle facili scorciatoie del razzismo, del massimalismo, dell’indifferenza.

Un episodio doloroso come questo di Gradisca deve diventare occasione per riflettere sull’Italia che vogliamo costruire. Siamo un paese nominalmente ancora cattolico, dove tuttavia misericordia e pietà vengono meno. Quando Papa Francescoesorta ad accogliere gli altri, dice che prima di tutto dobbiamo aprire la nostra mentalità, dobbiamo renderci disponibili verso gli altri: non solo i migranti ma tutte le persone vicine a ognuno di noi che con uno sguardo cercano aiuto. La politica dal canto suo ha una forte responsabilità: una vera rivoluzione culturale sarebbe poter realizzare una vera unità su alcuni princìpi – né di destra né di sinistra – ma semplicemente umani: accogliere, prendersi cura, guardarsi negli occhi, ascoltarsi. Nessuno è venuto a «rubare» la mia casa, il mio lavoro, il mio denaro.

E i Centri vanno superati: con l’integrazione, con procedure rapide, efficienti, sicure, si sconfigge la povertà umana ed economica, si danno risposte, si chiude la bocca ai tentativi di sfruttare e strumentalizzare complesse e difficili situazioni. Siamo un grande paese civile. Dobbiamo impegnarci per continuare ad esserlo. Papa Francesco lo ricorda e a noi tocca interrogarci ed impegnarci.

Mons. Vincenzo Paglia

Qatar - "Un nuovo attacco alla libertà di espressione" - Carcere per notizie che danneggino l'interesse nazionale

La Repubblica
La denuncia di Amnesty International: "Un nuovo attacco alla libertà di espressione". Si vuole colpire l’intenzione di danneggiare l’interesse nazionale e "infiammare l’opinione pubblica".
Sul un nuovo emendamento al codice penale del Qatar, che penalizza un’ampia gamma di attività nel campo dell’editoria e della comunicazione, si concentra la critica di Amnesty International. Si tratta di una decisione politica che, di fatto, limitetà in modo significativo la libertà di espressione, ad appena due anni dall’adesione del Paese al Patto internazionale sui diritti civili e politici. 

La legge, emanata dall’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, emenda il codice penale aggiungendo l’articolo 136-bis, che autorizza il carcere per “chiunque diffonda, pubblichi, o ripubblichi voci non confermate, dichiarazioni, notizie false o faziose, propaganda provocatoria, a livello nazionale o all’estero, con l’intenzione di danneggiare l’interesse nazionale, infiammare l’opinione pubblica, violare il sistema sociale o il sistema pubblico dello stato“.

Una legge che disattende impegni del passato. “Questa legge - dice Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International - indica chiaramente una preoccupante regressione rispetto agli impegni presi due anni fa a garanzia del diritto di libertà di espressione. Il Qatar possiede già numerose leggi repressive, ma quest’ultima dà un altro duro colpo alla libertà di espressione del paese e costituisce una palese violazione del diritto internazionale dei diritti umani. L’approvazione di una legge che può essere utilizzata con lo scopo di mettere a tacere critiche pacifiche è molto preoccupante - ha aggiunto - le autorità qatarine dovrebbero abrogare tali leggi coerentemente con i loro obblighi giuridici internazionali, e non approvarne altre“.

Carcere fino a 5 anni e sanzione di 25.000 euro. Secondo questa nuova disposizione, la trasmissione o la pubblicazione “faziosa” può essere punita con il carcere fino a cinque anni e una sanzione di 100.000 riyal (quasi 25.000 euro), in palese violazione dell’articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che garantisce il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee; nel 2018 il Qatar aveva ricevuto il plauso internazionale per la sua adesione al patto. Il 18 gennaio, il giornale qatarino al-Raya ha pubblicato sul sito un articolo abbastanza dettagliato sulla nuova legge, riportandone il contenuto limitandosi a riassumere molte disposizioni senza alcun commento o analisi editoriale. Alcune formule erano diverse dal testo finale, ma i dettagli essenziali erano giusti; tra questi, un accurato riferimento alla potenziale pena di cinque anni di reclusione per “fomento dell’opinione pubblica”.

Le scuse di un giornale per aver pubblicato la notizia. In 24 ore, tuttavia, il giornale ha provveduto a emettere una nota di scuse per aver pubblicato la notizia, esprimendo rammarico per “aver fomentato lo polemica”, cancellando l’articolo e dichiarando che il testo era arrivato “da una fonte non ufficiale ed era stato pubblicato senza verifiche con le autorità competenti“. Il Qatar ha già leggi che limitano in maniera arbitraria la libertà di espressione, come la Legge sulla stampa e le pubblicazioni del 1979 e quella sui reati informatici del 2014. Nel 2012, il poeta qatarino Mohammed al-Ajami fu condannato a un lungo periodo di detenzione per aver recitato una poesia critica nei confronti dell’emiro nel suo appartamento privato mentre viveva all’estero (in seguito ha ottenuto la grazia ed è stato rilasciato).

Preoccupa anche il trattamento dei lavoratori immigrati. I dati sui diritti umani in Qatar sono molto preoccupanti, soprattutto quelli sul trattamento dei lavoratori migranti. La scorsa settimana, dopo che il Qatar ha annunciato una nuova legge che abolisce la necessità del permesso di uscita dal paese per i collaboratori domestici migranti, il ministero degli Interni ha dichiarato che le sanzioni per i lavoratori partiti dal Qatar senza permesso del datore di lavoro saranno ancora applicate, sebbene non esista nella legge alcuna disposizione che le preveda.

Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) valuta le misure di isolamento e i casi di violenza in alcune carceri italiane

Il Dubbio
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti chiede che venga rivisto l'isolamento diurno dei detenuti.
Presunte violenze al 41bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. 

È questo uno dei casi segnalati da CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti).

Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del GOM era entrato nella sua cella e, dotati di equipaggiamento, l'avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 - dopo un alterco verbale con un agente il quale lo avrebbe fatto inciampare - lo stesso agente gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Questo è altro ancora è stato pubblicato nella relazione da parte del comitato europeo per la prevenzione della tortura.

Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti al carcere di Biella e a quello di Saluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. In un certo numero di casi la delegazione del CPT ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto.

di Damiano Aliprandi

sabato 25 gennaio 2020

Siria, la guerra che non fa rumore, la catastrofe umanitaria nella regione di Idlib nell'indifferenza dei media

Il Bo Live - Università di Padova
Sembra una guerra che non fa rumore, tale il silenzio dei media internazionali, che soltanto a singhiozzo si occupano della vicenda.
È una catastrofe umanitaria di proporzioni colossali: tre milioni di civili ammassati a ridosso del confine turco, nella regione di Idlib, nel nord-ovest della Siria, in condizioni proibitive per il freddo, per la carenza di cibo, per la precaria assistenza sanitaria. 

Tre milioni di persone, tra i quali moltissimi sono bambini, donne e anziani, che tentano di fuggire dalla guerra tra Siria e Russia da una parte e Turchia dall’altra, che proprio su quella dorsale, tra Idlib e Aleppo, continuano a combattere. 

L’ultimo allarme è stato lanciato pochi giorni fa da un gruppo di medici e di coordinatori umanitari, siriani e internazionali, che si sono riuniti in Turchia per fare il punto della situazione su quelle zone, investite da mesi da sistematici bombardamenti delle forze aeree russe.
Tutti al gelo e rischio carestia
«Lo sfollamento di decine di migliaia di civili, in larga parte donne e bambini, che continua a verificarsi nei distretti di Idlib e Aleppo, assieme alle dure condizioni meteorologiche invernali, all’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità, costituiscono le basi per un alto rischio di carestia», ha dichiarato all’Ansa Maamun Ladhkani, uno degli operatori umanitari che si trovano sul posto. In tutta la Siria la progressiva svalutazione della moneta locale al dollaro Usa ha portato a un’impennata dei prezzi (in due mesi è più che raddoppiato il prezzo della benzina), anche per i beni di prima necessità. «La gente non ha i soldi per comprare il combustibile per riscaldarsi, e c’è chi dà fuoco a gusci di pistacchi», hanno riferito i volontari delle Associazioni umanitarie.
Bombardamenti e vittime civili
Le notizie filtrano a fatica, i riflettori internazionali sono spenti. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Syrian Observatory for Human Rights – SOHR), nell’ultima settimana (dal 15 al 22 gennaio) tra Idlib e Aleppo ci sono stati 3900 tra attacchi aerei e terrestri, con circa 500 vittime, oltre metà delle quali tra la popolazione civile (e moltissimi sono bambini). «La recente escalation del regime e le operazioni militari russe all'interno della zona di "de-escalation" si estendono dalle montagne nord-orientali di Lattakia, alla periferia nord-occidentale della città di Aleppo passando per Hama e Idlib», è scritto nell’ultimo reportage pubblicato da SOHR. Che pubblica perfino un minuzioso e spaventoso resoconto del tipo di attacco portato e delle vittime rimaste sul terreno. «Aerei da guerra russi: almeno 313 incursioni. Aerei da guerra del regime: oltre 129 incursioni. Elicotteri del regime: 68 bombe a botte. Regime forze di terra: oltre 3.380 missili e proiettili di artiglieria. Gli attivisti della SOHR hanno anche documentato nello stesso periodo l'uccisione di 77 civili tra cui 28 bambini e il ferimento di altri 182. Le vittime sono state distribuite come segue: 43 civili tra cui 23 bambini e sette donne sono stati uccisi nel bombardamento russo di Bala, Kafrtaal, Kafr Jum, Al-Jinah, Uwayjil, Kafr Nouran, Jadraya, Arhab, Kafr Naha, nelle vicinanze di Atarib nella campagna occidentale di Aleppo e Al-Barah a sud di Idlib. 21 civili, tra cui tre bambini e un membro della difesa civile, sono stati uccisi in un bombardamento da jet del regime nella città di Idlib e Hass. 13 civili, tra cui due bambini e tre donne, sono stati uccisi a causa di bombardamenti da parte di gruppi jihadisti nei quartieri della città di Aleppo controllata dal regime».

Andrea Gaiardoni

venerdì 24 gennaio 2020

Grecia: Lesbo, Samos, Chios, campi profughi al collasso - Almeno 140 bambini gravemente malati privi di cure

Famiglia Cristiana
La popolazione delle isole che ospitano i rifugiati protesta e sciopera contro il sovraffollamento dei campi. Medici Senza Frontiere denuncia la mancanza di cure mediche essenziali per i bambini gravemente malati
Foto: MSF
È sempre più pesante la condizione delle migliaia di profughi che vivono nei campi di accoglienza sulle isole greche di Lesbo, Samos e Chios. Nei 5 hotspot si trovano 38.000 persone, 20.000 delle quali solo a Lesbo. Tra loro ci sono ben 6 mila minori, dei quali un migliaio sono non accompagnati. 

I campi stanno scoppiando a causa del sovraffollamento e delle precarie condizioni igieniche e anche la popolazione delle isole sta perdendo la pazienza. Il 22 gennaio miglia di persone hanno scioperato e manifestato a Mitilene, sull’isola di Lesbo. La maggior parte dei negozi sono rimasti chiusi e i servizi pubblici si sono fermati. Gli abitanti hanno chiesto alle autorità di risolvere il grave sovraffollamento dei campi. C’è chi lamenta un aumento della criminalità e furti di bestiame, ma il sentimento pià diffuso è che le risorse dell’isola non sono sufficienti per sostenere così tanta gente.

Medici senza Frontiere, presente con il suo personale a Lesbo, Samos, Chios e Atene, denuncia le condizioni dei campi e lamenta la mancanza dei servizi di cure essenziali per almeno 140 bambini gravemente malati. “Vediamo molti bambini colpite da malattie, con gravi problemi di cuore, diabete o asma, costretti a vivere in rifugi di fortuna, in condizioni orribili e antigieniche, senza accesso a cure mediche specialistiche e ai farmaci di cui hanno bisogno”, denuncia Vittoria Zingariello, responsabile del team degli infermieri di MSF a Lesbo. 

“La riluttanza del governo greco a trovare una soluzione rapida e sistemica per questi bambini”, aggiunge, “non è solo vergognosa, ma rischia anche di determinare danni irreparabili al loro stato di salute, se non di condurli addirittura alla morte”.

Secondo Tommaso Santo, capo missione di MSF in Grecia, “bambini, donne e uomini stanno pagando il prezzo ingiusto delle politiche migratorie basate sulla deterrenza. Negare ai bambini che soffrono di gravi malattie l’accesso alle cure mediche è solo l’ultima misura cinica che va oltre ogni immaginazione”.

giovedì 23 gennaio 2020

Cpr di Gradisca (Gorizia), muore il migrante georgiano Vakhtang Enukidze - "Si teme un nuovo caso Cucchi" - Espulsi i testimoni ma la Procura a afferma di averli "Ascoltati prima"

La Repubblica
La denuncia degli attivisti sulla vicenda di un georgiano di 38 anni deceduto lo scorso 18 gennaio nel centro vicino a Gorizia: "Testimoni espulsi". La Procura: "Ascoltati prima"
"Picchiato ripetutamente da circa 10 agenti nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Gradisca d'Isonzo (Gorizia), anche con un colpo d'avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d'agonia. Si rischia un nuovo caso Cucchi, una persona morta mentre si trovava in custodia dello Stato. Ora bisogna chiarire". Così il deputato Riccardo Magi (Radicali) che, in una conferenza stampa alla Camera, parla della vicenda di Vakhtang Enukidze, georgiano 38enne deceduto lo scorso 18 gennaio nel centro per il rimpatrio.

Magi il 19 ed il 20 gennaio scorsi ha fatto due visite ispettive nella struttura ed ha parlato con 8-9 testimoni (ospiti del Centro, un operatore ed anche un poliziotto) che hanno dato una "versione concorde" su come sono andate le cose. "Il fatto preoccupante - ha aggiunto il parlamentare - è che alcune delle persone con cui ho parlato, egiziani ospiti della struttura, sono stati nel frattempo espulsi".

La procura di Gorizia ha aperto un'inchiesta a carico di ignoti che al momento ipotizza, in via cautelativa l'omicidio volontario. Il deputato ha riferito ai magistrati quello che ha appreso. Il Procuratore di Gorizia, Massimo Lia, ha precisato all'Ansa che "i testimoni citati dall'onorevole Riccardo Magi sono stati sentiti prima che venissero espulsi". "Appena il collega che segue l'inchiesta ha saputo della presenza di possibili ulteriori testimoni oculari e di compagni di detenzione della vittima - ha aggiunto Lia - si è immediatamente recato nel Centro per sentirli prima che venisse attuata la loro espulsione, cioè l'epilogo atteso per chi è ospitato in quelle strutture. Per questa ragione, la loro ricostruzione dei fatti, sui quali non entrerò per non violare il segreto istruttorio, è stata raccolta dettagliatamente. Si tratta di quattro persone per le quali c'era l'urgenza di verbalizzare le dichiarazioni proprio perché prossimi a un allontanamento dal territorio nazionale che era stato programmato ed era ormai imminente. Quanto hanno riferito è stato puntualmente acquisito agli atti".

mercoledì 22 gennaio 2020

Venezuela, rapito deputato dell'opposizione Ismael Leon, prelevato da Forze speciali di Maduro. Perquisiti gli uffici di Guaidò

La Repubblica
La denuncia in Parlamento: "Ismael Leon prelevato da Forze speciali di Maduro"'.
Il deputato venezuelano di opposizione Ismael Leon, sarebbe stato rapito dalla Faes, le Forze speciali bolivariane che fanno capo al presidente Nicolas Maduro: la denuncia è stata ufficializzata dall'Assemblea nazionale su twitter, dopo un annuncio fatto in aula dalla deputata Adriana Pichardo. 

"Non sappiamo nulla di lui - ha detto Pichardo in aula, abbiamo informazioni non ufficiali sul fatto che sia stato intercettato dalla FAES e rapito dal regime di Maduro". La scomparsa di Leon è stata confermata alle tv locali dalla figlia del deputato, che ha anche lanciato un appello affinchè al padre cardiopatico siano prestate le cure necessarie.

In precedenza, gli agenti dell'intelligence venezuelana, il Sebin, hanno perquisito gli uffici del leader dell'opposizione Juan Guaidò mentre lui è in viaggio in Europa. "Dittatura codarda. Mentre sono in viaggio per consolidare il sostegno necessario per superare la tragedia che i venezuelani stanno vivendo si sono fatti vivi senza pudore... noi resistiamo e raggiungeremo la libertà", ha twittato Guaidò.

La perquisizione degli uffici di Guaido, riconosciuto presidente ad interim del Venezuela dagli Usa e da un'altra cinquantina di Paesi, è stata poi confermata ai cronisti dalla parlamentare Delsa Solorzano.

martedì 21 gennaio 2020

Libia, la Ue rilancia la missione Sophia smantellata da Salvini: «Riattiveremo la missione» Contrasterà il traffico d’armi, non si occuperà solo di migranti. In arrivo droni e aerei

Corriere della Sera
Sophia’s Choice. Alla fine la scelta di Sophia è l’unica, vera proposta sulla Libia uscita dalla conferenza di tregua di Berlino. «Rianimeremo» la missione navale, dicono gli europei. Proprio lei: l’invisa Operazione Sophia, varata nel 2015 e poi «distrutta e abbandonata sotto il signor Salvini» (parole del ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn), quella che nella sua «comprensione basica l’opinione pubblica italiana collega solo al salvataggio dei migranti» (citazione di Josep Borrell, responsabile Esteri Ue) e invece da febbraio sarà riformulata. 
«Ci concentreremo soprattutto sul traffico d’armi», dice Borrell. Perché la Pax Libica comincia da lì, ripete da mesi l’inviato dell’Onu, Ghassam Salamé. E la risoluzione Onu 1970/2011, sull’embargo alle forniture belliche, non è mai stata rispettata da nessuno. D’ora in poi serviranno invece controlli satellitari, più aerei, nuovi droni: «Le armi non arrivano in Libia solo via mare, ma anche da cielo e terra. La maggior parte entra dopo lunghe traversate nel deserto».

Il problema migranti resta sullo sfondo, nei 55 punti sottoscritti a Berlino, ma non troppo. Di missione Ue, di peacekeeping o di caschi blu — sono tutti d’accordo —, è prematuro parlare. Di Maio s’affretta a spiegare che Sophia tornerà solo per bloccare le armi, non per salvare barconi. Il cirenaico Haftar entra nella questione avvertendo che 41 dei 2.400 combattenti siriani filoturchi, spediti da Erdogan a sostenere il nemico tripolino Serraj, si sono già spostati in Italia: finti migranti, in realtà puri jihadisti. Ankara, rispondendo di non voler mediazioni Ue in Libia, è dura: «E i 2.500 russi? E i 5 mila sudanesi? E i nigerini, i ciadiani, i mercenari arrivati in Libia? Sappiamo quali giochi si facciano con la pretesa di combattere il terrorismo».

Francesca Battistini

Carcere - Primo suicidio del 2020, è un 24enne detenuto a Sanquirico a Monza

giornaledimonza.it
Venerdì scorso il gesto estremo di un detenuto in regime di carcere aperto. Inutili i soccorsi. Ha approfittato di restare solo in cella per impiccarsi. È morto in carcere un uomo italiano di 24 anni detenuto al Sanquirico nel settore cosiddetto di "regime di carcere aperto".
L'uomo ha atteso che i due compagni si recassero uno al lavoro nella struttura e uno a un corso in un'altra sezione per mettere in atto il proposito suicida e farla finita. Il fatto è avvenuto venerdì attorno alle 14.30. A trovare il corpo senza vita del detenuto sono state le guardie di Polizia penitenziarie che hanno tentato inutilmente di rianimarlo.

È il primo episodio del 2020, ma arriva a poco da un altro suicidio quando a togliersi la vita era stato a novembre un 46enne (detenuto per aver preso a martellate la moglie, ferendola gravemente).

lunedì 20 gennaio 2020

Svizzera - Eutanasia - La commissione in difficoltà - Un ergastolano chiede di essere autorizzato al suicidio assistito.

ilsussidiario.net
Un detenuto condannato all'ergastolo ha chiesto di essere ammesso al suicidio assistito. Patria del suicidio assistito, la Svizzera si trova adesso ad affrontare le estreme conseguenze della scelta di permettere di morire. 

Nella confederazione elvetica, dove si reca gente da tutto il mondo e come ben sappiamo anche dalla vicina Italia, il suicidio assistito è negato per un solo motivo: ragioni "egoistiche".

Cioè se uno chiede di essere ucciso semplicemente perché stanco o stufo di vivere, ma non è un malato terminale o soffre di dolori fisici considerati insostenibili. Viene accettata anche la malattia mentale qualora risulti portatrice di "sofferenza insostenibile". Il che non è molto facile, se non impossibile, da quantificare.

Ecco allora che un detenuto, condannato nel 1996 all'ergastolo per numerosi casi di violenze sessuali su bambine di 10 anni fino a donne di 56, ha chiesto di essere ammesso al suicidio assistito. 

"È una cosa naturale chiedere di suicidarsi piuttosto che essere sepolto vivo per il resto della vita, meglio essere morto che lasciato a vegetare dietro le mura" ha detto nella sua richiesta. Il che non fa una grinza, seguendo la logica della legge attuale. 

Richiesta che l'apposita commissione che permette o meno il suicidio assistito composta da due medici (entrambi devono dare l'ok) ha detto di non essere in grado di valutare perché dubbiosi si tratti di richiesta "egoistica".

Ovvio: nel momento in cui ammetti il suicidio per chi è malato, perché no per una persona condannata all'ergastolo? Se nel primo caso la vita diventa "una sofferenza insopportabile" lo è anche essere rinchiusi in prigione fino alla morte. La legge si ritorce contro se stessa: il suicidio assistito dimostra di essere soltanto un modo di eliminare una realtà inconfutabile, la vita, solo perché non si è in grado di gestirla. Non perché non sia possibile farlo. Certo, l'ergastolo è una pena comparabile a quella di morte, perché non permette la possibilità di riscatto, di rifarsi una vita a chi è sinceramente pentito (di fatto Papa Francesco si è detto contro l'ergastolo non a caso), ma in ogni caso c'è la possibilità di rifarsi una vita anche dietro le sbarre.

Il detenuto, Peter Vogt, spera di morire in occasione del suo compleanno, il prossimo 13 agosto, se la sua richiesta sarà accettata. Possiamo solo immaginarci quanti detenuti scomodi, in possesso di informazioni o verità su fatti criminali, verranno fatti fuori se la legge cambierà. Le autorità svizzere sono già preoccupate del fatto che, essendo la popolazione detenuta in carcere parecchio invecchiata, ci sarà un boom di richieste.


Paolo Vites

domenica 19 gennaio 2020

USA - Georgia - Commutata pena di morte in ergastolo a Jimmy Fletcher Meders, poche ore prima dell'esecuzione.

Blog Diritti Umani - Human Rights
Il "Parole Board Grants Clemency" concede clemenza a Jimmy Fletcher Meders Board commutando la condanna a morte in ergastolo dopo 32 anni nel braccio della morte 

La vita del prigioniero è stata risparmiata poche ore prima della sua esecuzione programmata, avrebbe dovuto ricevere l'iniezione letale alle 19:00 di giovedì, ma la commutazione della sua pena, dallo stato della Georgia, è arrivata intorno alle 13:00.

Il Consiglio ha commutato in vita la condanna a morte senza possibilità di libertà condizionale. 

La decisione di concedere clemenza è nata da una riunione in cui sono stati esaminati e  considerati la domanda di clemenza, tutti i fatti e le circostanze del colpevole e il suo reato, nonché argomenti, testimonianze e opinioni a sostegno o contro la clemenza. 
Il Consiglio ha citato la mancanza di precedenti penali di Meders prima di commettere il reato, la commissione di una sola infrazione minore in oltre 30 anni nel braccio della morte.

Meders è stato condannato per l'omicidio nel 1987 della contea di Glynn di Don Anderson. 

ES 

Yemen, nel paese la guerra porta al collasso il sistema sanitario si teme una epidemia di dengue che ha ucciso già 78 bambini

Vatican News
Il sistema sanitario dello Yemen, Paese scosso dalla guerra iniziata nel 2015 e da una gravissima crisi umanitaria, è al collasso. Dopo quasi 5 anni di guerra civile, le città sono distrutte. 
Più di 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case. Le condizioni di vita nel Paese del Golfo sono sempre più drammatiche. Ricevendo lo scorso 9 gennaio i membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco ha ricordato che lo Yemen "vive una delle più gravi crisi umanitarie della storia recente, in un clima di generale indifferenza della Comunità internazionale". Almeno 18 milioni di persone non hanno accesso ad acqua potabile. 

Sono più di 24 milioni gli yemeniti, l’80% della popolazione, che necessitano di assistenza umanitaria.
Si teme un’epidemia di dengue


Nello Yemen continuano a diffondersi malattie prevenibili. Nel 2019 sono stati registrati 860 mila casi di colera. A causa di questa malattia, sono morte almeno 1000 persone. In questo drammatico contesto si aggiunge un'altra piaga: almeno 78 bambini sotto i 16 anni sono morti a causa della dengue. 

Lo rende noto l’organizzazione internazionale "Save the Children" sottolineando che, “davanti a numeri così drammatici”, il timore è quello di “una vera e propria epidemia”. In questo periodo, in particolare, le forti precipitazioni, associate al conflitto in corso, ostacolano la fornitura di acqua pulita.
Situazione critica negli ospedali

Le aree più colpite dalla dengue siano quelle di Hodeidah e Aden. Mariam Aldogani, direttrice di Save the Children a Hodeidah, riferisce che “i genitori non possono permettersi di portare i propri figli in ospedale o di acquistare medicine." "Gli ospedali - aggiunge - sono pieni e alcuni pazienti sono costretti a sdraiarsi a terra per la mancanza di letti. È davvero una situazione terribile, anche bambini di otto mesi sono stati colpiti dalla febbre dengue. In alcuni ospedali tutto ciò che puoi sentire sono i bambini che piangono per il dolore”.
Cosa è la dengue

La dengue è una malattia, con sintomatologia simil-influenzale, che colpisce i bambini, i giovani e gli adulti. È trasmessa dalla puntura di una zanzara infetta. È una complicazione potenzialmente letale. Si stima che 500.000 persone colpite da dengue, in prevalenza bambini, vengano ospedalizzate ogni anno.

Amedeo Lomonaco

Turchia. Prigioniera politica Nurcan Bakir si toglie la vita nel carcere di Burhaniye nei pressi di Mardin. Gesto per protestare contro la repressione nelle carceri.

Il Popolo Veneto
La prigioniera politica Nurcan Bakir (47 anni di età, in carcere da 28 anni e gravemente ammalata) si è tolta la vita in cella per protestare contro la repressione nelle carceri turche e denunciare le condizioni indegne in cui versano i detenuti.
 

Contro la sua volontà Nurcan era stata trasferita dal carcere femminile di Gezbe a quello speciale di Burhaniye, prigione chiusa di tipo T che sorge nei pressi di Mardin (provincia Balikesir, nella regione di Marmara). 

Una ritorsione – tale trasferimento – per la sua partecipazione allo sciopero della fame di massa indetto l’anno scorso per protestare contro l’isolamento totale imposto al leader curdo Ocalan. 

Al suo rilascio definitivo mancavano ancora due anni e lei si era quindi rivolta alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti Umani affinché, date le sue condizioni di salute, potesse essere rilasciata prima. 

Nel suo ultimo contatto con familiari (una telefonata del giorno precedente) aveva detto di non voler “tacere di fronte alla repressione”, ma soprattutto di ricordare “ogni notte nei sogni i suoi figli assassinati dal regime”.

Inizialmente il suo corpo era stato portato all’Istituto di Medicina Forense di Bursa e qui trattenuto in quanto pare mancassero alcuni documenti. 

Altri problemi dalla direzione del cimitero di Bursa che ha reso problematica (rifiuto di un mezzo di trasporto, proibizione di trasportarlo in aereo) la restituzione della salma alla famiglia. 

Nurkan Bakir verrà sepolta nel villaggio di Kayakdere (nel distretto Omerli di Mardin) dove nel pomeriggio di questo 16 gennaio i suoi parenti si stanno dirigendo trasportandone i resti con i propri mezzi. 

Seguiti e controllati da uno spiegamento di polizia. Sicuramente le forze dell’ordine cercheranno di impedire che la cerimonia funebre si svolga pubblicamente diventando un momento di lotta e protesta contro Erdogan.

venerdì 17 gennaio 2020

Nel caos in Libia i migranti detenuti nei lager ricattati per combattere nelle milizie come "carne da cannone". Si preferiscono sudanesi che parlano arabo.

GlobalistLa denuncia dell''Unhcr, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati: si cercano soprattutto sudanesi che parlano arabo.

Non bastavano i tagliagole e i mercenari reclutati dalle due parti in guerra e dai loro sponsor esterni. Nel caos libico, s’inserisce ora un’altra pagina inquietante, vergognosa: o combatti, o ti ammazziamo. Il ricatto ai migranti. Le parti impegnate nel conflitto in Libia stanno usando i migranti come combattenti. 

Lo denuncia l'Unhcr, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. ''Abbiamo le prove, da parte di persone che si trovano nei centri di detenzione, che è stata offerta loro la proposta di restare lì per un periodo indefinito oppure di combattere al fronte'', ha detto alla Dpa il rappresentante speciale dell'Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel.


Ricatto mortale

Al momento, Cochetel dice di non essere in grado di dire quanti migranti abbiamo accettato l'offerta. ''Se decidono di farlo, viene data loro una uniforme, un fucile e vengono immediatamente portati nel mezzo della guerriglia urbana'', ha aggiunto.''Abbiamo visto che questi tentativi di reclutamento'' dei migranti ''riguardano prevalentemente i sudanesi - ha proseguito Cochetel - Riteniamo questa scelta motivata dal fatto che parlano arabo. Entrambe le parti'' in conflitto in Libia ''sono coinvolte'', ovvero le milizie fedeli al governo del premier libico Fayez al-Sarraj e l'autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar.

Umberto De Giovannangeli

Continua a leggere l'articolo >>>

Carola Rackete: "Nessuno dovrebbe essere perseguito perché aiuta persone in difficoltà". La Cassazione dà ragione alla ong che salva vite.

La Repubblica
Il tweet della comandante della Sea Watch 3 arrestata a giugno dello scorso anno per aver forzato il blocco agli sbarchi di Lampedusa. Respinto il ricorso dei pm di Agrigento. Il legale: "Avevamo ragione noi"

Anche la Corte di Cassazione dà ragione a Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 arrestata a giugno dello scorso anno dopo aver forzato il blocco delle motovedette della Guardia di finanza portando fino al molo di Lampedusa la nave umanitaria con il suo carico di migranti ormai in condizione di emergenza dopo i tanti giorni trascorsi in mare in attesa di quell'autorizzazione all'approdo che il Viminale si rifiutava di dare.
"La suprema Corte italiana ha confermato oggi che non avrei dovuto essere arrestata a giugno per aver salvato delle vite. Questo è un verdetto importante per tutti gli attivisti impegnati nel salvataggio in mare! Nessuno dovrebbe essere perseguito perché aiuta le persone in difficoltà. La direttiva Ue sui 'crimini di solidarietà' necessita di essere riformata", ha commentato Rackete su Twitter.
"La Rackete non andava arrestata", il verdetto della Cassazione che ha respinto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento che si era vista annullare l'ordine di arresto dalla gip Alessandra Vella secondo la quale la capitana aveva solo fatto il suo dovere, salvando vite umane e portandole nel porto sicuro più vicino. Motivazioni che, evidentemente, i supremi giudici hanno ritenuto fondate avendo respinto il ricorso dei pm. 

Le motivazioni del verdetto della Cassazione saranno depositate entro 30 giorni ma vale ricordare quelle dell'ordinanza di scarcerazione della gip Alessandra Vella che al reato contestato di resistenza a pubblico ufficiale fece prevalere la discriminante legata all'aver agito "adempiendo al dovere di salvare vite umane".

giovedì 16 gennaio 2020

Migranti. La Svizzera blocca l'espulsione di una donna nigeriana in Italia: "Con il Decreto Sicurezza non sono garantite assistenza e cure mediche di cui ha bisogno."

Corriere della Sera
"Col decreto Salvini assistenza non garantita". "L'italia - scrive il tribunale federale - ha tagliato i fondi per l'accoglienza". Al centro del caso una donna nigeriana che aveva chiesto asilo alle autorità elvetiche e che ha bisogno di cure mediche.
Un tribunale svizzero ha bloccato l'espulsione verso l'Italia di una donna nigeriana richiedente asilo ritenendo che, in seguito al decreto Salvini, l'Italia non sia più in grado di garantire una adeguata assistenza umanitaria e sanitaria ai migranti. 

Lo ha reso noto l'agenzia Swissinfo citando una sentenza del tribunale amministrativo federale del 17 dicembre scorso. Secondo l'agenzia, il provvedimento seguirebbe una linea tenuta dai giudici elvetici anche in altri casi analoghi.

Dalla Nigeria alla Svizzera - Protagonista del caso è una donna proveniente dalla Nigeria e che si era stabilita in un primo tempo in Italia (dove si era anche sposata). Da qui però la donna era fuggita in Svizzera, in seguito a una serie di violenze subite dal marito, dove aveva presentato domanda di asilo politico.

Nel luglio del 2018 la Segreteria di Stato per l'immigrazione (Sem) di Berna aveva però respinto la domanda interpretando alla lettera l'accordo di Dublino: l'esame della richiesta di asilo spetta al primo Stato in cui il migrante fa ingresso, in questo caso l'Italia. Per la donna si prospettava un accompagnamento alla frontiera di Chiasso ma la sentenza del tribunale federale ha bloccato l'espulsione invitando la Sem a riesaminare più da vicino il caso della donna prestando attenzione "alle condizioni effettive e concrete della presa a carico delle famiglie in Italia nei centri di prima accoglienza".

Il precedente del 2014 - La sentenza del tribunale federale, presieduta dalla giudice Emilia Antonioni, ritiene che in Italia, in seguito al decreto Salvini siano peggiorate le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, in particolare quelli che devono avere accesso a cure mediche specialistiche, come nel caso della donna nigeriana al centro del contendere.

Tutto questo perché il decreto ha smantellato il sistema degli Sprar (che prevedevano un'accoglienza diffusa, in piccoli gruppi), concentrando invece l'accoglienza in strutture di grandi dimensioni. Il tribunale - secondo quanto riporta Swissinfo - ha anche rilevato che le sovvenzioni statali per l'assistenza ai migranti sono state tagliate. I giudici si sono mossi anche sulla base di una precedente sentenza del 2014 (caso Tarakhel) in cui si raccomandava di espellere migranti solo nel caso venisse loro garantita dal paese di destinazione una adeguata assistenza umanitaria, sanitaria e giuridica.

"Tenere conto del decreto Salvini" - "Tenuto conto dei cambiamenti avvenuti in seguito all'entrata in vigore del Decreto Salvini - dice un passo della sentenza - il Tribunale è del parere che la giurisprudenza Tarakhel deve essere estesa alle persone che soffrono di malattie (somatiche o psichiche) gravi o croniche, che necessitano una presa a carico immediata al loro arrivo in Italia". Da qui la richiesta di allontanare la donna nigeriana - e tutte le persone che si trovassero nella sua identica situazione - solo dopo essersi assicurati che l'Italia garantisca livelli di assistenza adeguati. Il dipartimento dell'immigrazione ha a sua volt a diffuso una nota in cui afferma che la sentenza viene applicata solo nei casi "di persone e famiglie che necessitano di cure mediche immediate".

1.114 espulsi verso l'Italia - Il flusso di migranti tra l'Italia e la Svizzera risente dell'andamento generale degli sbarchi dal sud del Mediterraneo ed è drasticamente calato negli ultimi anni. Tuttavia ancora oggi diverse centinaia di persone l'anno riescono ad attraversare il confine di nascosto. Applicando l'accordo di Dublino sui richiedenti asilo le autorità elvetiche tra gennaio e novembre del 2019 hanno rimandato in Italia 1.114 richiedenti asilo.

Claudio Del Frate

martedì 14 gennaio 2020

Migranti "Decreto Sicurezza"- Rapporto Action Aid e Openpolis: "Nel 2019 40.000 senza protezione, e con le nuove regole le gare di appalto per gestione dei Centri andate deserte.

Il Dubbio
Rapporto "La sicurezza dell'esclusione", realizzato da Action Aid e Openpolis. Esplosione dell'emergenza degli irregolari e difficoltà del nuovo schema di capitolato di gara per i centri di accoglienza, con bandi andati deserti e ricorsi presentati da alcuni candidati. 
È ciò che emerge dal rapporto "La sicurezza dell'esclusione - Centri d'Italia 2019", realizzato da Action Aid e Openpolis che offre una prima valutazione dell'impatto delle politiche migratorie del primo governo Conte. Gran parte del lavoro di analisi, suddiviso in due parti, si sofferma sulle conseguenze che la legge sicurezza immigrazione sta producendo sul sistema d'accoglienza nel suo complesso, denunciando nel contempo quanto sia difficile raccogliere le informazioni necessarie per monitorare il sistema dell'accoglienza e le sue evoluzioni per un'assenza quasi totale di trasparenza

Indicazioni sul disfacimento complessivo di un sistema e delle tutele dei richiedenti asilo che già molti attivisti, enti del terzo settore e operatori coinvolti nel sistema d'accoglienza avevano ampiamente previsto e che i movimenti avevano cercato di contrastare con mobilitazioni territoriali e di carattere nazionale. Ma nonostante un ampio fermento sociale, la legge Salvini è ancora lì, e, a oggi, la sua abrogazione pare che non sia tra le priorità del governo 5stelle-Pd.
Secondo le stime del rapporto sono 40.000 le persone che si sono ritrovate irregolari nel 2019 a causa della soppressione della protezione umanitaria. E queste cifre sono inevitabilmente destinate ad aumentare nel 2020 poiché la legge ha generato una stretta anche nelle procedure e nei responsi delle Commissioni territoriali, sempre più restìe a concedere una forma di protezione. 
Del resto i rimpatri, che sembrerebbe un altro strumento di propaganda politica, sono stati nel 2018 circa 5.615. A questo ritmo si stima che per rimpatriare i 680mila cittadini stranieri irregolari servirebbero oltre 100 anni, senza contare il costo economico di una tale opinabile operazione.

Il rapporto si sofferma ampiamente anche sulle conseguenze delle nuove regole delle gare di appalto per la gestione dei centri. Regole "volute per razionalizzare il sistema e tagliare i costi e i servizi di inclusione, si scontrano con la difficoltà, anche di natura politica, dei gestori di farvi fronte e delle prefetture di applicarle. Diversi i bandi deserti, quelli ripetuti o che non riescono a coprire il fabbisogno dei posti nei centri".

Sempre secondo il rapporto è "un affare che attrae i gestori a carattere industriale, grandi soggetti privati anche esteri in grado di realizzare economie di scala, e allontana i piccoli con vocazione sociale e personale qualificato".

La seconda parte del rapporto, invece, approfondisce l'impatto del nuovo capitolato di gara (collegato al Decreto sicurezza) sul funzionamento della macchina dell'accoglienza. "Un provvedimento - si legge nel rapporto - che snatura il senso e il ruolo del sistema trasformando i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) in luoghi di desolata attesa e sospensione esistenziale piuttosto che di avvio all'integrazione".

Damiano Aliprandi