Osservatore Romano
Aveva appena otto anni Sami Modiano quando delle leggi razziali sentì l’odore prima dei provvedimenti statali. Viveva, come tanti altri bambini, sull’isola di Rodi, “l’isola delle rose” che avrebbe rivisto dopo diversi anni, ma con occhi sfioriti. Oggi ne ha 89, ma non dimentica il momento in cui la segregazione razziale aleggiava fra i banchi di scuola, fredda e concisa come l’espulsione che gli comunicò il maestro elementare: «La mia infanzia finisce a otto anni.
Frequentavo la terza elementare, quando sono stato espulso dalla scuola e da quel momento ho avuto il mio primo il dolore. Il desiderio mio era quello di poter studiare, ma le leggi razziali mi hanno tolto questa possibilità». Così, nell’isola dove la brezza poteva spazzare le nubi, si radica un’ombra che lo rende diverso: «Non essere un bambino uguale a tutti gli altri è una traccia che mi è rimasta da allora».
Per Sami Modiano la tragedia della deportazione inizia con un’infanzia interrotta, che lo trasforma da innocente a testimone gravato dalla colpa: «Avevo 13 anni e mezzo, ero un ragazzino con la famiglia e una grande comunità ebraica di Rodi, che contava circa 2 mila persone. Della mia famiglia ho perso circa 40 persone, fra cui un padre e una sorella, ma in realtà ne ho perse 2 mila, perché alla fine ci salvammo in trentuno e io ero il più piccolo». Può la colpa dell’umanità pesare sulle gracili spalle di un tredicenne? È una domanda che Sami Modiano si è fatto spesso nella vita, senza trovare risposte. Fino al 2005: «Dopo 60 anni ho rimesso piede ad Auschwitz-Birkenau. Mi resi conto di non aver dimenticato una virgola, mi sono trovato là come se fosse la prima volta». S’incrina la sua voce e le sue parole si impastano di un dolore sempre più universale: «Ho visto, ho visto, ho visto» ripete tre volte, e nelle pause c’è tutta una vita cancellata nei campi di sterminio: «Quando mi chiedono: Lei è un sopravvissuto? Io rispondo “Sì, lo sono”, ma sono ancora lì, ad Auschwitz-Birkenau, non sono mai uscito di lì. Ero un ragazzo: come posso cancellare quello che ho visto?».
Dopo decenni, ha fatto sua la missione di ricordare, e in questo processo intrecciato di vita e morte, decide ogni giorno di dedicarsi ai più giovani: «Da quando accompagnai 300 studenti delle scuole superiori di Roma al campo di concentramento, nonostante il dolore mi sono sentito sostenuto dai ragazzi. Sono loro a darmi quello di cui ho bisogno, e per loro continuerò fino a quando Dio mi darà la forza di continuare, perché sono loro che dovranno fare in modo che questo non succeda mai mai mai più». Gli chiedo se in quello che chiama “cimitero di Auschwitz-Birkenau” abbia mai interpellato Dio: «Davanti a quello che ho vissuto nel campo, ho perso la fede, perché mi chiedevo dove fosse Dio nei bambini innocenti che venivano uccisi in modo atroce? È stato un interrogativo che ho portato sempre con me, fino a quando non ho ricevuto gesti umani che mi hanno fatto riscoprire la fede».
Sami Modiano ha visto Dio nella stretta di mano di un ragazzo avvenuta nel momento di più profonda solitudine e disperazione. Da quelle mani strette nell’inferno, sarebbe nata una grande amicizia con Piero Terracina: «In quel momento ci siamo aiutati nonostante la consapevolezza che non saremmo usciti vivi da lì. In quel campo della morte siamo arrivati ad adottarci come fratelli, sapendo che saremmo morti, ma il Padre Eterno ci ha dato la vita, e da quel momento in poi la nostra amicizia è stata qualcosa che non si può spiegare, un mistero insondabile che ci lega tuttora, oltre la morte». La sua voce è rotta dalle lacrime nel ricordo dell’amico recentemente scomparso. Quando parla di Dio, Sami Modiano lo chiama “Padre”: «Siamo tutti figli di Dio, siamo tutti esseri umani senza alcuna differenza. Questo è il nostro compito, questa è la nostra missione» ripete ai ragazzi che, ormai da 15 anni, accompagna a visitare il campo di concentramento in cui ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza.
«Per questo ho vissuto» è la sua biografia. Una risposta concisa a una domanda che lo ha accompagnato per tutta la vita: «Ecco perché sono uscito vivo. Perché devo cercare di trasmettere ai giovani. Scrutando le loro lacrime in quel cimitero che si chiama Birkenau, davanti alle camere a gas ho giurato che avrei continuato. Se sarà il momento di andare via, me ne andrò sereno, consapevole che quello che ho fatto, l’ho fatto con grande, doveroso impegno».
Marco Grieco