Avvenire
Le comunità indigene insorgono contro il progetto che apre a impianti di scavo e a pozzi petroliferi nelle aree remote dell’Amazzonia, dove vivono le tribù «incontattate», tutelate dalla Costituzione
Un «sogno», l’ha definito il presidente Jair Bolsonaro. Una «legge storica», al pari di quella che ha liberato gli schiavi nel 1888, ha aggiunto il capo di gabinetto, Onyx Lorenzoni. Con queste premesse, non sorprende che il capo dello Stato abbia scelto una data simbolica – i primi quattrocento giorni di mandato – per presentare al Parlamento il progetto numero 191. Il testo apre alla possibilità di realizzare attività economiche – minerarie, estrazione di idrocarburi o gas, impianti idrici per creare energia elettrica – all’interno delle «terre indigene » dell’Amazzonia.
Aree di proprietà dello Stato nazionale che, però, in base alla Costituzione del 1988, quest’ultimo dà in usufrutto permanente ai 305 popoli nativi brasiliani. Ad essi, viene riconosciuto un diritto originario sui terreni da loro abitati da tempo immemorabile e progressivamente sottratti, durante e dopo la colonia. In realtà, negli ultimi 32 anni, restituito meno di un terzo – 436 – dei 1.296 appezzamenti indicati è stato restituito ai legittimi usufruttuari. Almeno, però, finora, la riconsegna o «demarcazione» delle terre – come viene definita – li aveva messi al riparo da interessi economici esterni, garantendo ai soli indigeni la possibilità di utilizzarne le risorse. Con il disegno di legge 191 – che ufficialmente dovrebbe dare attuazione al dettato costituzionale – Bolsonaro, come più volte promesso, ha cominciato a far cadere il “muro legale” eretto a protezione degli indios e dell’Amazzonia. Là, il governo potrà autorizzare la realizzazione di impianti idro e termoelettrici, pozzi petroliferi o altri mega progetti. I nativi colpiti saranno «ascoltati» ma niente di più: solo in caso di attività mineraria è concesso loro il potere di veto. Per il resto, dovranno adeguarsi. Il presidente non ha dubbi che lo faranno volentieri. «Sono esseri umani come noi», ha detto candidamente, «hanno i nostri stessi desideri e necessità».
Le critiche – ha ironizzato – «verranno dagli ambientalisti che, se potessi, manderei al confino in Amazzonia, tanto loro amano l’ambiente». Il movimento indigeno, in realtà, è deciso a ostacolarne in ogni modo l’approvazione. «Il sogno di Bolsonaro è quello di rispondere agli interessi economici che lo hanno eletto e appoggiano il suo governo, a costo di violare le leggi nazionali e internazionale», ha tuonato l’Associazione dei popoli indigeni.Forti critiche sono state espresse anche dal Consiglio indigenista missionario (Cimi) della Chiesa brasiliana. La discussione in Parlamento si profila rovente, anche per la contrarietà dell’86 per cento della popolazione. Bolsonaro, che non ha la maggioranza, spera nel sostegno della “bancada ruralista”, il gruppo trasversale di rappresentanti dei latifondisti, in gran parte appartenenti alle sette evangelicali. Queste ultime sostengono da anni la necessità di «incorporare» gli indigeni al resto della società, nonostante la Costituzione riconosca loro il diritto alla differenza. Per questo preoccupa e non poco, la recente nomina dell’ex missionario evangelicale Ricardo Lopes Dias alla guida del settore della Fondazione nazionale per i nativi (Funai) che si occupa di indios in isolamento volontario. «Popoli non contattabili» per legge. Almeno finora. Perché la designazione di Lopes Dias rischia – per il Cimi – di modificare la situazione.
Lucia Capuzzi
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