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giovedì 12 marzo 2020

Emergenza carceri - Mons. Vincenzo Paglia: "La pena non deve uccidere la speranza, diamo un futuro ai detenuti" - "Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica"

Il Riformista
«Nel vostro lavoro è di grande aiuto tutto ciò che vi fa sentire coesi: anzitutto il sostegno delle vostre famiglie, che vi sono vicine nelle fatiche. E poi l’incoraggiamento reciproco, la condivisione tra colleghi, che permettono di affrontare insieme le difficoltà e aiutano a far fronte alle insufficienze. Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari – è un problema grave -, che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero».
Così parlava Papa Francesco pochi mesi fa, il 14 settembre 2019 in Piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile.
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C’è un aspetto della «crisi da coronavirus» che proprio i disordini nelle carceri fanno comprendere con grande evidenza: siamo interconnessi; volenti o nolenti lo siamo. Tutti. La società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro.
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La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è «zona rossa»; e le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica.
Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con «di fuori», si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie.
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Si aggiunga poi la situazione di sovraffollamento cronica, la presenza di problemi sanitari molto forti (tossicodipendenze, disagi psichici), il numero di detenuti non italiani in crescita, e l’esplosione di una rivolta diventa un fatto prevedibile. Che fare?
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Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili.
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Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nella carceri: isolamento non deve voler dire solitudine.
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Papa Francesco lo sa.Non a caso – come ha confermato ieri scrivendo a Il Mattino di Padova – le meditazioni della Via Crucis di questa Pasqua vengono dalla parrocchia della Casa di Reclusione il Due Palazzi di Padova. «Ho scelto il carcere, colto nella sua interezza, ha detto il Papa, per fare in modo che, anche stavolta, fossero gli ultimi a dettarci il passo».


Vincenzo Paglia

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