Il problema dei bambini detenuti in carcere con le madri è un tema spesso dimenticato e relegato nel silenzio delle celle dove i piccolissimi imparano a dire “apri” prima che “mamma o papà”; dove nessun bambino dovrebbe essere costretto a vivere e a scontare una pena non sua.
Negli anni la normativa dell’ordinamento penitenziario, ha affrontato il problema in modo diverso e più articolato, ma segnato ancora dall’ideologia tradizionale nei confronti delle madri detenute.
Strutture penitenziarie pensate per gli adulti, con problemi di sovraffollamento, che si sono dovute adattare per piccoli “ospiti”, modificando le celle in nidi: malinconiche figure di Topolino e Principesse Disney che impattano su muri grigi , spazi gioco improvvisati, nessuna divisa nelle sezioni che accolgono i bambini. Insomma, parvenze di normalità.
La normativa sulle detenute madri può brevemente riassumersi in pochi passaggi normativi, frutto di una sterile evoluzione basata su esigenze punitive e di sicurezza, vano tentativo di arginare il problema dei piccoli detenuti.
La legge n. 354 del 26 luglio 1975 “Ordinamento Penitenziario” all’art. 11 comma 9 prevedeva che alle detenute madri fosse consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni.
Per la cura e l’assistenza dei bambini l’Amministrazione penitenziaria organizzava appositi asili nido secondo le modalità indicate dall’art. 19 del Regolamento di esecuzione – D.P.R. 30 giugno 2000.
L’art. 47 ter della citata legge prevedeva, tra le misure alternative alla detenzione, che le detenute madri di bambini di età inferiore ai tre anni conviventi potessero espiare la pena presso la propria abitazione od in altro luogo pubblico di cura o di assistenza, entro i limiti consentiti dalla legge.
Nel 1998 la legge n. 165 (Simeone – Saraceni) all’art. 4 estese la possibilità di usufruire della detenzione domiciliare alle detenute madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, sempre che non dovessero scontare pene per gravi reati di cui agli art. 90 e 94 del testo unico 309/90.
La legge 8 marzo 2001 n. 40 – la c. d. legge Finocchiaro – introducendo modifiche al all’art. 146 e 147 c.p., ha ampliato l’ambito di operatività degli istituti del differimento e del rinvio obbligatorio della pena, introducendo i nuovi istituti della detenzione domiciliare speciale e dell’assistenza all’esterno dei figli minori (artt. 21bis e 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario).
Tuttavia questa legge non ha risolto il problema a causa della rigidità dei requisiti per la concessione dei benefici, subordinata all’assenza del pericolo di commissione di nuovi reati, requisito quasi sempre insussistente trattandosi di condanne a carico di donne recidive, in particolare per reati connessi allo spaccio di stupefacenti e contro il patrimonio.
Viene da sé che da questi benefici è restata esclusa una notevole percentuale di donne, per lo più straniere, senza fissa dimora e gravate da numerosi precedenti penali.
Nel 2011 la legge n. 62 è stata vista come un “faro di speranza”, perché ha ampliato la possibilità di espiazione della pena, fuori dalle mura carcerarie, da parte della madre, in presenza di figli con età compresa tra zero e sei anni ( il limite era 3 anni) , così da facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative e privilegiando di contro strutture alternative e più consone allo sviluppo psicofisico del minore.
Anche questo scoglio non pare superato poiché soprattutto in presenza di donne straniere o senza fissa dimora, l’esiguità di strutture come gli ICAM (istituti di custodia attenuata) e delle case protette, ha di fatto reso impossibile l’attuazione della legge, mantenendo inalterata la presenza dei minori negli istituti penitenziari.
Secondo il XV rapporto sulla detenzione dell’Associazione Antigone “al 30 aprile 2019 sono 55 bambini di meno di tre anni d’età che vivono in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 Italiane. Un numero nuovamente in calo, dopo il picco di 70 bambini in carcere raggiunto a metà 2018.
In particolare, i bambini si trovano negli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per detenuti Madri) di Lauro (13), Milano San Vittore (10), Torino (8), Venezia Giudecca (5), nell’istituto femminile di Rebibbia (8) e nelle sezioni femminili di Firenze Sollicciano (3), Milano Bollate (3), Bologna (2), Messina (1), Forlì (1) e Avellino (1).
Per quanto la cosa possa apparire di marginale importanza, non può ignorarsi l’effetto che la carcerazione indotta, determina sui bambini che soffrono di disturbi derivanti dal sovraffollamento e alla mancanza di spazio, condizionando lo sviluppo della sfera emotiva e cognitiva, provocando irrequietezza, facilità al pianto, difficoltà di sonno, inappetenza, apatia.
A questo si aggiunga, dato non meno importante, che al compimento del sesto anno di età, il bambino viene “scarcerato” ed affidato, se privo di affetti familiari, a case famiglia o ad altre soluzioni ritenute idonee per lui. Un distacco dalla madre che com’è intuibile aggrava enormemente la sfera psicologica ed emotiva, già fortemente compromessa
Recentemente la cronaca ha rappresentato il caso del piccolo Edward, che dopo un isolamento di due anni nel carcere di Rebibbia con la madre, sarà affidato ad una struttura per minori perché i suoi genitori sono stati dichiarati non idonei a ricoprire il ruolo, per la lunga lista di condanne riportate.
Non resta che sperare in un intervento normativo che si uniformi alle molteplici Raccomandazioni Internazionali sul tema minori e carcere e dia attuazione concreta ai progetti per l’ampliamento di strutture per madri e bambini, rispettose delle esigenze di custodia, ma certamente più idonee alla piccola popolazione carceraria.
Avv. Roberta Schiralli
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