Ventisettemila bambini, la gran parte sotto gli otto anni. Alcuni arrivati in braccio alle madri, altri nati lì, in una città di tende e fango, un campo prigione nel nord est della Siria per le vedove ed i figli del cosiddetto Stato islamico (Is) collassato nel 2016 dopo nove anni di guerra. Per le Nazioni Unite «uno dei problemi più urgenti al mondo». Anche uno dei più dimenticati, in un mondo dalla memoria già corta.
Ventisettemila piccoli fantasmi rimasti a galleggiare come detriti dopo l’implosione della follia terrorista che voleva farsi Stato ed aveva mosso guerra di conquista nel Medio Oriente. Negli anni in cui l’Is chiamò a raccolta da mezzo mondo aspiranti combattenti per far rinascere il Califfato, in tanti furono portati dai genitori — piccolissimi o appena concepiti — in queste terre, per essere allevati in un nuovo ordine.
Sono stati indottrinati, hanno visto morire padre e madre, non conoscono altro che guerra, radicalismo, scontri, fazioni, punizioni. Il campo di Al Hol — fornace di polvere l’estate, pozza di melma d’inverno, ora assediato anche dal covid come avverte Medici senza frontiere — è la loro finestra sul futuro. Il recinto blindato, guardato dai soldati e le soldatesse dell’Sfd, è l’unico orizzonte che chiude lo sguardo e l’idea di come sia fatto il mondo.
Le Nazioni Unite, venerdì scorso, hanno lanciato un appello per la salvezza di quei 27.000 bambini. Lo spazio li tiene prigionieri ma il tempo è un nemico peggiore, perché plasma anime incapaci di libertà ed amore. Quando il responsabile per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov dice in una riunione informale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che quei piccoli sono «incagliati, abbandonati al loro destino» parla di vite umane prigioniere di un meccanismo ad orologeria. «Devono essere considerati innanzitutto come vittime, ed i minori di 14 anni hanno diritto di non essere detenuti e puniti» è stato l’appello rivolto al Consiglio da Voronkov.
[...]
Eppure i Paesi di origine non sanno, o non vogliono, gestire il ritorno alla società civile di minori traumatizzati e costretti a vivere in un microcosmo che riproduce, anche nelle gerarchie fra prigionieri, la follia fondamentalista. Se molte donne subiscono ce ne sono altre che hanno tenacemente ricostruito una catena di comando basata sulla paura e sul fanatismo. Per 27.000 bambini, malnutriti, malati, senza speranza, l’Is non ha mai perso la guerra.
Le Nazioni Unite, venerdì scorso, hanno lanciato un appello per la salvezza di quei 27.000 bambini. Lo spazio li tiene prigionieri ma il tempo è un nemico peggiore, perché plasma anime incapaci di libertà ed amore. Quando il responsabile per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov dice in una riunione informale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che quei piccoli sono «incagliati, abbandonati al loro destino» parla di vite umane prigioniere di un meccanismo ad orologeria. «Devono essere considerati innanzitutto come vittime, ed i minori di 14 anni hanno diritto di non essere detenuti e puniti» è stato l’appello rivolto al Consiglio da Voronkov.
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Eppure i Paesi di origine non sanno, o non vogliono, gestire il ritorno alla società civile di minori traumatizzati e costretti a vivere in un microcosmo che riproduce, anche nelle gerarchie fra prigionieri, la follia fondamentalista. Se molte donne subiscono ce ne sono altre che hanno tenacemente ricostruito una catena di comando basata sulla paura e sul fanatismo. Per 27.000 bambini, malnutriti, malati, senza speranza, l’Is non ha mai perso la guerra.
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