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sabato 14 agosto 2021
Migranti: espulsi in Marocco minori non accompagnati giunti a maggio nell'enclave spagnola di Ceuta
Ansa
Sono stati rimpatriati il 12 agosto dall'enclave spagnola di Ceuta, situata sulla costa del Nordafrica, decine di migranti minorenni arrivati lo scorso maggio nel corso di due giorni caotici in cui circa 10.000 persone entrarono in massa in territorio spagnolo.
Sono stati rimpatriati il 12 agosto dall'enclave spagnola di Ceuta, situata sulla costa del Nordafrica, decine di migranti minorenni arrivati lo scorso maggio nel corso di due giorni caotici in cui circa 10.000 persone entrarono in massa in territorio spagnolo.
Lo riportano diversi media iberici, che citano fonti in loco. Autorità spagnole affermano che si tratta dell'applicazione di un accordo bilaterale firmato anni fa da Madrid e Rabat in materia di "emigrazione irregolare di minori non accompagnati".
Le consegne dei minori al Paese nordafricano sono avvenute a piccoli gruppi, di circa 15 persone, secondo le informazioni arrivate da Ceuta.
Secondo la radio Cadena Ser, che ha anticipato la notizia, l'ordine di riconsegnare i giovani migranti a Rabat è partita dal ministro dell'Interno spagnolo, Fernando Grande-Marlaska, lo scorso 10 agosto. Il Ministero dell'Interno ha affermato all'ANSA che "non conferma né smentisce" quest'informazione. I media iberici sostengono che Madrid e Rabat hanno lavorato per giorni su un accordo di riconsegna dei giovanissimi migranti giunti a Ceuta a maggio senza accompagnatori adulti.
L'emergenza migratoria di tre mesi fa si aprì nelle prime ore del 17 maggio scorso, quando decine di migranti iniziarono a superare il confine tra Spagna e Marocco irregolarmente senza che le guardie di frontiera marocchine intervenissero per fermarli, in contemporanea con notizie di forti tensioni diplomatiche tra i due Paesi sul nodo del Sahara Occidentale (ex colonia spagnola rivendicata da Rabat).
Secondo la radio Cadena Ser, che ha anticipato la notizia, l'ordine di riconsegnare i giovani migranti a Rabat è partita dal ministro dell'Interno spagnolo, Fernando Grande-Marlaska, lo scorso 10 agosto. Il Ministero dell'Interno ha affermato all'ANSA che "non conferma né smentisce" quest'informazione. I media iberici sostengono che Madrid e Rabat hanno lavorato per giorni su un accordo di riconsegna dei giovanissimi migranti giunti a Ceuta a maggio senza accompagnatori adulti.
L'emergenza migratoria di tre mesi fa si aprì nelle prime ore del 17 maggio scorso, quando decine di migranti iniziarono a superare il confine tra Spagna e Marocco irregolarmente senza che le guardie di frontiera marocchine intervenissero per fermarli, in contemporanea con notizie di forti tensioni diplomatiche tra i due Paesi sul nodo del Sahara Occidentale (ex colonia spagnola rivendicata da Rabat).
In poco più di 48 ore arrivarono circa 10.000 persone, tra cui numerose donne e bambini. Nei giorni successivi, vennero respinti o tornarono in Marocco spontaneamente circa 8.000 persone, mentre centinaia di minori rimasero a Ceuta. Alcuni vennero accolti in altre regioni della Spagna, mentre almeno 700, secondo i calcoli de El País, sono rimasti nell'enclave. Le autorità spagnole sostengono che l'accordo con Rabat prevede che il Marocco si faccia carico dei minori nel rispetto dei loro diritti, o consegnandoli ai genitori o attraverso i propri servizi sociali rivolti all'infanzia.
Save the Children e altre ong protestano per quanto sta avvenendo, sostenendo che "qualsiasi espulsione collettiva è illegale", in particolare se gli allontanamenti sono effettuati "contro la volontà dei minori".
Save the Children e altre ong protestano per quanto sta avvenendo, sostenendo che "qualsiasi espulsione collettiva è illegale", in particolare se gli allontanamenti sono effettuati "contro la volontà dei minori".
giovedì 12 agosto 2021
Bielorussia - Non si ferma la repressione, violenze contro i giornalisti per cercare di nascondere le proteste iniziate dopo le elezioni di un anno fa.
Il Domani
Nell'ultimo anno sono aumentate le violenze nei confronti dei giornalisti. L'obiettivo è bloccare l'informazione indipendente. A un anno dall'ennesima vittoria di Aleksandr Lukashenko alle elezioni del 9 agosto 2020, la repressione delle opposizioni e della libertà di stampa in Bielorussia non si è mai fermata.
Le manifestazioni di un anno fa contro l'autoritarismo di Lukashenko e i brogli elettorali avevano richiamato l'attenzione dei paesi europei e delle organizzazioni internazionali. Ma la persecuzione sistematica di giornalisti e media, che coinvolge anche le testate straniere, rende difficile mantenere quel livello di attenzione.
"Dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto 2020, i media indipendenti bielorussi hanno vissuto le più brutali repressioni dall'indipendenza della Bielorussia nel 1991", si legge in un rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf). La battaglia contro la libertà di stampa è parte integrante della politica del governo che mira a eliminare qualsiasi spazio di informazione al fine di monopolizzare tutti i contenuti. L'obiettivo è quello di impedire un'informazione libera, plurale e indipendente che racconti la reale situazione del paese, mettendo in atto una repressione che Rsf definisce "massiva, sistemica e duratura".
"Dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto 2020, i media indipendenti bielorussi hanno vissuto le più brutali repressioni dall'indipendenza della Bielorussia nel 1991", si legge in un rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf). La battaglia contro la libertà di stampa è parte integrante della politica del governo che mira a eliminare qualsiasi spazio di informazione al fine di monopolizzare tutti i contenuti. L'obiettivo è quello di impedire un'informazione libera, plurale e indipendente che racconti la reale situazione del paese, mettendo in atto una repressione che Rsf definisce "massiva, sistemica e duratura".
Il numero di violazioni, secondo i dati raccolti dall'Associazione bielorussa di giornalisti nel 2020, risulta 8 volte superiore rispetto alla media del decennio 2010-2019. Un totale di 856 casi di arresto, detenzione, cause amministrative e penali, contro una media di 104,8. Nello specifico l'associazione parla di 447 detenzioni nel 2020: 97 i giornalisti in carcere nell'ambito di un processo amministrativo, almeno 62 hanno subito violenze da parte delle forze di sicurezza e 15 rappresentanti della stampa sono stati incriminati nell'ambito di un procedimento penale.
Nel 2021 la situazione non è cambiata, anzi si può dire peggiorata poiché le autorità hanno iniziato a perseguire i giornalisti con accuse formali e procedimenti penali.
Le modalità di repressione - La repressione della libertà di stampa ha assunto diverse forme, dalle più manifeste alle più subdole. Restrizioni di accesso a internet, blackout della connessione, censura, licenziamenti, sono alcuni degli strumenti con cui le autorità limitano la libertà dei giornalisti. Già nei giorni successivi alle elezioni il governo aveva impedito la circolazione di notizie, attraverso il blocco della rete dati dei cellulari. È stato poi bloccato l'accesso ai siti web di molti media indipendenti (almeno 50 siti di informazione). Sono numerosi i quotidiani indipendenti che hanno dovuto sospendere la propria attività a causa dei divieti di stampa e distribuzione e le limitazioni hanno colpito anche i giornalisti stranieri, che si sono visti negare l'accredito.
Uno degli strumenti più comuni, con cui sono state esercitate pressioni, è il procedimento penale. Secondo Rsf, è un meccanismo messo in atto dal regime bielorusso da almeno trent'anni. Le detenzioni per accuse infondate sono prolungate e le garanzie dell'equo processo vengono violate. "Nel 2020-2021 i giornalisti sono stati perseguiti penalmente per il solo fatto di svolgere la propria attività professionale", dice Rsf. Dal 15 luglio 2021 infatti i gli operatori dell'informazione detenuti sono 29: tra questi, 12 sono in carcere nell'ambito del caso tut.by, un sito web indipendente che nel 2019 veniva letto dal 62,58 per cento di tutti gli utenti bielorussi e che si è visto revocare le credenziali giornalistiche.
Sono molti i giornalisti, bielorussi e stranieri, che hanno denunciato violenze fisiche, torture e trattamenti inumani durante le manifestazioni. Secondo il rapporto le responsabilità ricadono sul ministero degli Interni e, nello specifico, sulle unità speciali e su cellule non identificate che, con l'ordine di perseguire i giornalisti, hanno commesso violenze nelle strade, nei dipartimenti di polizia e nelle carceri. La repressione non è solo individuale, il regime ha un piano di soffocamento di tutti gli organi di stampa, attraverso la chiusura obbligata dei media, il blocco dei siti, le sanzioni, o il divieto di stampa o di diffusione.
Le testimonianze - Iryna Arakhouskaya, una giornalista freelance che collaborava con il canale televisivo The Belsat, è stata ferita alla gamba da una pallottola di gomma. Stava seguendo le manifestazioni del 10 agosto a Minsk ed è stata inseguita da un agente della sicurezza "Quando alcune persone con il volto coperto e uniformi nere si sono avvicinate a un gruppo di giornalisti, ho smesso di filmare e ho iniziato a correre. Due persone con uniformi nere e volto coperto e lunghi fucili ci hanno inseguito. In quel momento, uno dei due mi ha sparato e io ho continuato a correre", racconta. "Qualcuno mi ha dato un calcio in faccia. Quando sono caduto, due persone hanno iniziato a calciarmi e colpirmi con dei bastoni. Mi hanno dato circa 10 colpi. Gli stessi agenti mi hanno portato su un autobus, continuando a colpirmi nello stesso modo", dice Yan Roman, un giornalista di Televizija Polska che stava raccontando le manifestazioni a Hrodna l'11 agosto 2020 ed è stato arrestato e portato nel dipartimento di polizia. A causa dei pestaggi ha perso quattro denti, ha avuto un ematoma all'occhio, una frattura al braccio sinistro e numerosi lividi e abrasioni.
Marika Ikonomu
Le modalità di repressione - La repressione della libertà di stampa ha assunto diverse forme, dalle più manifeste alle più subdole. Restrizioni di accesso a internet, blackout della connessione, censura, licenziamenti, sono alcuni degli strumenti con cui le autorità limitano la libertà dei giornalisti. Già nei giorni successivi alle elezioni il governo aveva impedito la circolazione di notizie, attraverso il blocco della rete dati dei cellulari. È stato poi bloccato l'accesso ai siti web di molti media indipendenti (almeno 50 siti di informazione). Sono numerosi i quotidiani indipendenti che hanno dovuto sospendere la propria attività a causa dei divieti di stampa e distribuzione e le limitazioni hanno colpito anche i giornalisti stranieri, che si sono visti negare l'accredito.
Uno degli strumenti più comuni, con cui sono state esercitate pressioni, è il procedimento penale. Secondo Rsf, è un meccanismo messo in atto dal regime bielorusso da almeno trent'anni. Le detenzioni per accuse infondate sono prolungate e le garanzie dell'equo processo vengono violate. "Nel 2020-2021 i giornalisti sono stati perseguiti penalmente per il solo fatto di svolgere la propria attività professionale", dice Rsf. Dal 15 luglio 2021 infatti i gli operatori dell'informazione detenuti sono 29: tra questi, 12 sono in carcere nell'ambito del caso tut.by, un sito web indipendente che nel 2019 veniva letto dal 62,58 per cento di tutti gli utenti bielorussi e che si è visto revocare le credenziali giornalistiche.
Sono molti i giornalisti, bielorussi e stranieri, che hanno denunciato violenze fisiche, torture e trattamenti inumani durante le manifestazioni. Secondo il rapporto le responsabilità ricadono sul ministero degli Interni e, nello specifico, sulle unità speciali e su cellule non identificate che, con l'ordine di perseguire i giornalisti, hanno commesso violenze nelle strade, nei dipartimenti di polizia e nelle carceri. La repressione non è solo individuale, il regime ha un piano di soffocamento di tutti gli organi di stampa, attraverso la chiusura obbligata dei media, il blocco dei siti, le sanzioni, o il divieto di stampa o di diffusione.
Le testimonianze - Iryna Arakhouskaya, una giornalista freelance che collaborava con il canale televisivo The Belsat, è stata ferita alla gamba da una pallottola di gomma. Stava seguendo le manifestazioni del 10 agosto a Minsk ed è stata inseguita da un agente della sicurezza "Quando alcune persone con il volto coperto e uniformi nere si sono avvicinate a un gruppo di giornalisti, ho smesso di filmare e ho iniziato a correre. Due persone con uniformi nere e volto coperto e lunghi fucili ci hanno inseguito. In quel momento, uno dei due mi ha sparato e io ho continuato a correre", racconta. "Qualcuno mi ha dato un calcio in faccia. Quando sono caduto, due persone hanno iniziato a calciarmi e colpirmi con dei bastoni. Mi hanno dato circa 10 colpi. Gli stessi agenti mi hanno portato su un autobus, continuando a colpirmi nello stesso modo", dice Yan Roman, un giornalista di Televizija Polska che stava raccontando le manifestazioni a Hrodna l'11 agosto 2020 ed è stato arrestato e portato nel dipartimento di polizia. A causa dei pestaggi ha perso quattro denti, ha avuto un ematoma all'occhio, una frattura al braccio sinistro e numerosi lividi e abrasioni.
Marika Ikonomu
lunedì 9 agosto 2021
Grecia - Lesbo - 4.200 profughi bloccati in condizioni difficili a Kara Tele. L'Europa è ferma. La presenza di Sant'Egidio.
Avvenire
Oltre 4mila profughi bloccati nel campo di Kara Tepe, il più grande dell'Ue, in attesa di un pezzo di carta che non arriva mai. Vivono in tende e container, in condizioni igieniche difficili.
L’Europa si è fermata a Lesbo. Lo spiega bene Ayaan, donna somala, scuotendo la testa davanti al pezzo di carta con il terzo rigetto della sua domanda di asilo. Da due anni e tre mesi vive sull’isola greca, ad una manciata di chilometri dalle sponde turche, e non sa cosa succederà di lei.
Oltre 4mila profughi bloccati nel campo di Kara Tepe, il più grande dell'Ue, in attesa di un pezzo di carta che non arriva mai. Vivono in tende e container, in condizioni igieniche difficili.
Foto: Stefano Pasta |
Dei 4.200 abitanti di Kara Tepe, tra le tende e i container del più grande campo dell’Unione, molti sono nella sua stessa situazione. Anche negli altri campi greci, 'strutture controllate chiuse' per il Governo ellenico, la disperazione è una sfida da sconfiggere ogni giorno: il 10 luglio, Hamid, un ventiduenne afghano, si è impiccato dentro al container in cui alloggiava a Schisto, vicino ad Atene. Lui ha retto solo fino al secondo diniego.
A Kara Tepe i tentativi di suicidi riguardano anche i minori. Qui, il 45% degli abitanti ha meno di 18 anni: i 'dimenticati' che fanno così paura all’Europa dell’inverno demografico sono soprattutto bambini. Alla scuola vera e propria non va nessuno (solo 3 bimbi), qualcuno riesce ad accedere ai corsi delle Ong. Tante anche le donne sole, il cui destino è minacciato dalle reti della tratta. Dal 1 gennaio gli arrivi via mare verso le isole greche sono stati solo 1.300 (e alcune decine di morti in mare). Erano stati oltre 50mila nel 2019, di cui 35mila a Lesbo. Sono diminuiti perché in questo periodo Erdogan sta collaborando: blocca le partenze, riprende sulle coste i gommoni che Frontex e la Guardia costiera greca intercettano, addirittura sono stati segnalati dei rinvii dopo pochi giorni di permanenza in Grecia, senza la possibilità di chiedere l’asilo. Insomma, la Turchia sta facendo il lavoro per cui l’Europa le ha promesso quest’anno tre miliardi di euro, che si aggiungono a quelli già versati dal 2016.
L’hotspot di Moria, distrutto dall’incendio del settembre 2020, era stato costruito nel 2015 per volere dell’Ue. L’Agenda europea sull’immigrazione prevedeva che nel centro le persone rimanessero solo pochi giorni, per essere identificate e trasferite in altri paesi dell’Unione attraverso i ricollocamenti, ma nel 2017 quel programma è stato sospeso e nel 2019 si è arrivati ai 22mila profughi del campo di Moria. Intanto, nel 2016, l’accordo tra Europa ed Erdogan (rinnovato lo scorso giugno) prometteva la diminuzione delle partenze e la possibilità di respingere in Anatolia i profughi siriani, somali, afghani, pachistani e bengalesi, tutte nazionalità per cui l’Ue considera sicura la permanenza in Turchia.
Nel 2020, mentre le autorità greche ricostruivano, dopo l’incendio, un nuovo insediamento, molti sono scappati - con o senza documenti - verso la terraferma, dirigendosi sulla rotta balcanica o in altri modi per lasciare la Grecia. I 'rimasti' sono 4.200, soprattutto afghani (il 45%), somali, siriani, congolesi; tra gli ultimi arrivati, in aumento i sierraleonesi e altre nazionalità subsahariane. Addirittura ci sono famiglie ferme sull’isola da tre anni.
Dal campo si può uscire solo alcuni giorni, a determinati orari. Un netturbino mi racconta che tra i rifiuti sono molto comuni le bottiglie piene di urina: soprattutto le donne hanno paura di andare nei pochi bagni chimici. «È una situazione insostenibile», mi conferma Khadija, una ventenne siriana di Deir el-Zor, da sedici mesi a Kara Tepe.
A Kara Tepe i tentativi di suicidi riguardano anche i minori. Qui, il 45% degli abitanti ha meno di 18 anni: i 'dimenticati' che fanno così paura all’Europa dell’inverno demografico sono soprattutto bambini. Alla scuola vera e propria non va nessuno (solo 3 bimbi), qualcuno riesce ad accedere ai corsi delle Ong. Tante anche le donne sole, il cui destino è minacciato dalle reti della tratta. Dal 1 gennaio gli arrivi via mare verso le isole greche sono stati solo 1.300 (e alcune decine di morti in mare). Erano stati oltre 50mila nel 2019, di cui 35mila a Lesbo. Sono diminuiti perché in questo periodo Erdogan sta collaborando: blocca le partenze, riprende sulle coste i gommoni che Frontex e la Guardia costiera greca intercettano, addirittura sono stati segnalati dei rinvii dopo pochi giorni di permanenza in Grecia, senza la possibilità di chiedere l’asilo. Insomma, la Turchia sta facendo il lavoro per cui l’Europa le ha promesso quest’anno tre miliardi di euro, che si aggiungono a quelli già versati dal 2016.
L’hotspot di Moria, distrutto dall’incendio del settembre 2020, era stato costruito nel 2015 per volere dell’Ue. L’Agenda europea sull’immigrazione prevedeva che nel centro le persone rimanessero solo pochi giorni, per essere identificate e trasferite in altri paesi dell’Unione attraverso i ricollocamenti, ma nel 2017 quel programma è stato sospeso e nel 2019 si è arrivati ai 22mila profughi del campo di Moria. Intanto, nel 2016, l’accordo tra Europa ed Erdogan (rinnovato lo scorso giugno) prometteva la diminuzione delle partenze e la possibilità di respingere in Anatolia i profughi siriani, somali, afghani, pachistani e bengalesi, tutte nazionalità per cui l’Ue considera sicura la permanenza in Turchia.
Nel 2020, mentre le autorità greche ricostruivano, dopo l’incendio, un nuovo insediamento, molti sono scappati - con o senza documenti - verso la terraferma, dirigendosi sulla rotta balcanica o in altri modi per lasciare la Grecia. I 'rimasti' sono 4.200, soprattutto afghani (il 45%), somali, siriani, congolesi; tra gli ultimi arrivati, in aumento i sierraleonesi e altre nazionalità subsahariane. Addirittura ci sono famiglie ferme sull’isola da tre anni.
Dal campo si può uscire solo alcuni giorni, a determinati orari. Un netturbino mi racconta che tra i rifiuti sono molto comuni le bottiglie piene di urina: soprattutto le donne hanno paura di andare nei pochi bagni chimici. «È una situazione insostenibile», mi conferma Khadija, una ventenne siriana di Deir el-Zor, da sedici mesi a Kara Tepe.
Una landa desolata senza ombra, a 40 gradi d’estate, con tende o container sovraffollati come unico riparo per il freddo invernale. La incontro alla Tenda dell’Amicizia, dove la Comunità di Sant’Egidio distribuisce pacchi alimentari e offre 400 pasti al giorno, mentre i bambini, finalmente, hanno un posto per giocare.
« Wait, wait, wait...», «aspettare», sospira. Anche lei non sa spiegare perché, dopo tre interviste, abbia avuto solo rigetti: «In Siria la mia casa è stata distrutta dalla guerra. Mio marito, ingegnere elettronico, è in carrozzina per le conseguenze di una bomba». Ora sono bloccati in una tenda, in condizioni igieniche debilitanti. «Lui di notte non riesce più a dormire per lo stress; io non ce la faccio più».
Accanto a Khadij c’è Noura, di Aleppo, vedova siriana con 4 figli e una madre anziana senza quasi più parole. Anche lei fatica a sperare, è arrivata al quarto rigetto. Appena può uscire dal campo, però, va alla Scuola della Pace dove porta i suoi figli a imparare a scrivere. «Ho solo voi e Dio», dice rivolta a Monica Attias di Sant’Egidio, che la conosce ormai da anni: «Più di 250 volontari della Comunità da tutta Europa – spiega Attias – si alternano a luglio e agosto. È la nostra scelta di non chiudere gli occhi di fronte ai 'dimenticati' di Lesbo». Se l’Europa volesse, la soluzione ci sarebbe: «Sono i corridoi umanitari che garantiscono il ricollocamento e un percorso di integrazione nel contesto locale». Negli ultimi mesi, ricorda la coordinatrice dei corridoi dalla Grecia, abbiamo spostato in Italia 101 richiedenti asilo, mentre 69 erano stati trasferiti in collaborazione con la Santa Sede. Tra di loro, i 12 imbarcati da papa Francesco nel volo di ritorno durante la sua visita a Lesbo del 2016, poi affidati proprio a Sant’Egidio.
Stefano Pasta, Lesbo (Grecia)
Accanto a Khadij c’è Noura, di Aleppo, vedova siriana con 4 figli e una madre anziana senza quasi più parole. Anche lei fatica a sperare, è arrivata al quarto rigetto. Appena può uscire dal campo, però, va alla Scuola della Pace dove porta i suoi figli a imparare a scrivere. «Ho solo voi e Dio», dice rivolta a Monica Attias di Sant’Egidio, che la conosce ormai da anni: «Più di 250 volontari della Comunità da tutta Europa – spiega Attias – si alternano a luglio e agosto. È la nostra scelta di non chiudere gli occhi di fronte ai 'dimenticati' di Lesbo». Se l’Europa volesse, la soluzione ci sarebbe: «Sono i corridoi umanitari che garantiscono il ricollocamento e un percorso di integrazione nel contesto locale». Negli ultimi mesi, ricorda la coordinatrice dei corridoi dalla Grecia, abbiamo spostato in Italia 101 richiedenti asilo, mentre 69 erano stati trasferiti in collaborazione con la Santa Sede. Tra di loro, i 12 imbarcati da papa Francesco nel volo di ritorno durante la sua visita a Lesbo del 2016, poi affidati proprio a Sant’Egidio.
Stefano Pasta, Lesbo (Grecia)
domenica 1 agosto 2021
Afghanistan - Offensiva dei Talebani, rappresaglie contro i "collaborazionisti" del governo di Kabul e delle forze di sicurezza
Il Manifesto
Per i residenti di Herat, Lashkargah e Kandahar, tre delle principali città afghane, sono ore di drammatica incertezza.
Per i residenti di Herat, Lashkargah e Kandahar, tre delle principali città afghane, sono ore di drammatica incertezza.
Negli ultimi due-tre giorni i Talebani hanno infatti sferrato una triplice offensiva, riuscendo a entrare nei distretti periferici di queste importanti città e combattendo duramente contro le forze governative, che per ora sono riuscite a impedire la conquista dei nuclei centrali delle città, ma non a evitare il progressivo accerchiamento da parte del gruppo guidato da mullah Haibatullah Akhundzada.
A KANDAHAR, storica roccaforte del gruppo nel momento della sua nascita e ascesa, in particolare nella metà degli anni Novanta e ancora negli anni successivi, quando ospitava lo storico leader mullah Omar, i Talebani hanno condotto operazioni di rappresaglia, secondo un recente rapporto curato da Human Rights Watch.
Sarebbero infatti andati a cercare i parenti più stretti dei «collaborazionisti», accusati di aver lavorato per il governo di Kabul o per le forze di sicurezza. E li avrebbero uccisi.
Secondo l’Afghanistan Independent Human Rights Commission, i Talebani avrebbero condotto rappresaglie anche contro i civili che nelle settimane scorse avevano plaudito alla provvisoria riconquista da parte delle forze governative del distretto di Spin Boldak, al confine con il Pakistan.
Mentre proprio ieri il New York Times ha confermato una notizia che già circolava da giorni: il corpo del fotografo indiano Danish Siqqiqui, ucciso mente era embedded con le forze speciali afghane a Spin Boldak, sarebbe stato oltraggiato dai Talebani, una volta che il e premio Pulitzer era già morto.
A LASHKARGAH, nelle scorse ore si è combattuto anche all’interno della città. Eravamo lì esattamente un mese fa: allora i combattimenti erano nella periferia della città, oltre il fiume. Ma tutti i residenti già aspettavano l’arrivo dei Talebani. Che ora sono arrivati.
Sono invece arrivati in ritardo – soltanto ieri pomeriggio – gli aiuti militari chiesti dal governatore della provincia per fronteggiare la nuova offensiva dei Talebani, che già lo scorso maggio avevano provato a sferrare un attacco alla città, in quel caso per verificare la prontezza degli americani nell’accorrere in aiuto dell’alleato di Kabul.
Giuliano Battiston
A KANDAHAR, storica roccaforte del gruppo nel momento della sua nascita e ascesa, in particolare nella metà degli anni Novanta e ancora negli anni successivi, quando ospitava lo storico leader mullah Omar, i Talebani hanno condotto operazioni di rappresaglia, secondo un recente rapporto curato da Human Rights Watch.
Sarebbero infatti andati a cercare i parenti più stretti dei «collaborazionisti», accusati di aver lavorato per il governo di Kabul o per le forze di sicurezza. E li avrebbero uccisi.
Secondo l’Afghanistan Independent Human Rights Commission, i Talebani avrebbero condotto rappresaglie anche contro i civili che nelle settimane scorse avevano plaudito alla provvisoria riconquista da parte delle forze governative del distretto di Spin Boldak, al confine con il Pakistan.
Mentre proprio ieri il New York Times ha confermato una notizia che già circolava da giorni: il corpo del fotografo indiano Danish Siqqiqui, ucciso mente era embedded con le forze speciali afghane a Spin Boldak, sarebbe stato oltraggiato dai Talebani, una volta che il e premio Pulitzer era già morto.
A LASHKARGAH, nelle scorse ore si è combattuto anche all’interno della città. Eravamo lì esattamente un mese fa: allora i combattimenti erano nella periferia della città, oltre il fiume. Ma tutti i residenti già aspettavano l’arrivo dei Talebani. Che ora sono arrivati.
Sono invece arrivati in ritardo – soltanto ieri pomeriggio – gli aiuti militari chiesti dal governatore della provincia per fronteggiare la nuova offensiva dei Talebani, che già lo scorso maggio avevano provato a sferrare un attacco alla città, in quel caso per verificare la prontezza degli americani nell’accorrere in aiuto dell’alleato di Kabul.
Giuliano Battiston