Bhasan Char è il luogo in cui il governo ha trasferito decine di migliaia di migranti musulmani birmani per dare respiro al famigerato campo di Cox’s Bazar. Ma la vita è un inferno: si rischiano inondazioni, il cibo è scadente, e così in tanti cercano di scappare via barca con l'aiuto dei trafficanti. "Vogliono lavorare e raggiungere la loro famiglia"
Il suo nome in bangladese significa “l’isola galleggiante", ma potremmo anche chiamarla l’isola che non c’è. Anzi, che non c’era. E che a forza di dragare i sedimenti del fiume Meghna e costruire argini ora c’è. Anche se rischia d’essere spazzata via dalle tempeste tropicali e dalle alluvioni dei cambiamenti climatici sempre più virulenti nel Golfo del Bengala. Ma il governo del Bangladesh vuol riempirla di 100mila profughi rohingya per alleviare il sovrappopolamento a Cox’s Bazar, il mostruoso campo dove vivono ammassati altri 890mila birmani musulmani, fuggiti dalle pulizie etniche del Tatmadaw, l’esercito buddhista di Myanmar.
Il problema di quest’isola che non c’era, Bhasan Char, 40 chilometri quadrati con 1.440 palazzine e 120 rifugi anti-ciclone, sotto un manto di tetti rossi retti da mattoni forati, è che i 20mila disperati che sono già venuti a viverci non vedono l’ora di scappar via. Sognano di tornare dalle famiglie a Cox’s Bazar, di raggiungere i mariti in Malesia, in Thailandia o in Medio Oriente, per poi aprirsi una strada verso l’Europa.
Il suo nome in bangladese significa “l’isola galleggiante", ma potremmo anche chiamarla l’isola che non c’è. Anzi, che non c’era. E che a forza di dragare i sedimenti del fiume Meghna e costruire argini ora c’è. Anche se rischia d’essere spazzata via dalle tempeste tropicali e dalle alluvioni dei cambiamenti climatici sempre più virulenti nel Golfo del Bengala. Ma il governo del Bangladesh vuol riempirla di 100mila profughi rohingya per alleviare il sovrappopolamento a Cox’s Bazar, il mostruoso campo dove vivono ammassati altri 890mila birmani musulmani, fuggiti dalle pulizie etniche del Tatmadaw, l’esercito buddhista di Myanmar.
Il problema di quest’isola che non c’era, Bhasan Char, 40 chilometri quadrati con 1.440 palazzine e 120 rifugi anti-ciclone, sotto un manto di tetti rossi retti da mattoni forati, è che i 20mila disperati che sono già venuti a viverci non vedono l’ora di scappar via. Sognano di tornare dalle famiglie a Cox’s Bazar, di raggiungere i mariti in Malesia, in Thailandia o in Medio Oriente, per poi aprirsi una strada verso l’Europa.
Vogliono, soprattutto, non vivere di cibo regalato dagli aiuti umanitari, ma guadagnare qualche soldo, avere la dignità di un lavoro che li illuda di un futuro diverso. Così sono pronti a morire affogati, o a farsi riacciuffare e riportare qui. Ma devono superare la polizia che controlla i loro movimenti e che a volte impedisce ai residenti d’interagire con i vicini. “Sono confinati nell’isola, senza permesso di andarsene”, denuncia Zaw Win di Fortify Rights.
In questi mesi, più di 700 profughi hanno pagato ai trafficanti dai 130 ai 500 euro a testa per salire su una barchetta e traversare i 6 chilometri di mare che dividono l'isola dalla costa. Duecento di loro sono stati arrestati e ritrascinati a Bhasan Char, nelle loro unità ben allineate e organizzate che ricordano tanto un lager. Ad agosto, sono affondate due barche di fuggiaschi. Dodici dispersi nella prima, 14 morti e 13 dispersi nella seconda. Le storie sono tante, ma raccontano la disperazione di non sentirsi a casa, di provare un vuoto senza speranza che fa sembrare la morte come un’alternativa migliore di una vita alienante, lontano dalle persone amate, senza nulla in cui sperare. “E in un’isola dove tempeste e alluvioni mettono a rischio chi ci abita”, come denuncia Human Rights Watch.
“Ci danno da mangiare sempre la stessa sbobba, ogni giorno pesce e riso, pesce e riso”, si lamenta un ragazzo. “È cibo che possono mangiare i bangladesi, ma noi rohingya non possiamo ingoiarci quella roba per il resto della vita”. Un anziano, cieco da un occhio, approfondisce il tema: “Quando la gente non ha soldi, e non ha modo di guadagnarne, anche se ha cibo sul piatto, non può essere felice. Per questo vogliono scappar via tutti”. “Sì, è vero, la responsabilità del Bangladesh è servir loro cibo ogni giorno, non trovargli un lavoro”, analizza così il problema il commissario responsabile dei profughi e del rimpatrio per il Bangladesh, Shah Rezwan Hayat. “Dobbiamo ancora sviluppare una comunità, qui. E ciò richiede che arrivi più gente, non che se ne vadano. Quando arriveranno tutti i parenti di chi vive qui, meno gente vorrà andarsene”.
È proprio la mancanza di un’attività lavorativa e la scompaginazione dei nuclei familiari a spingere alla fuga dall’isola che non c’era. Lo ammette anche il poliziotto di Chattogram, una città lungo la costa, incaricato di intercettare i fuggiaschi. “Sono irritati dal fatto di non avere un lavoro. Vogliono lavorare e guadagnare. Per questo fuggono”. Il direttore del Progetto Bhasan Char, Rahed Satter, conferma: “Sono soprattutto i giovani e gli adolescenti a voler fuggire, via fiume, strada o via mare. Vanno a cercare un futuro”.
Chi resta organizza scioperi della fame e proteste, soprattutto quando arrivano gli osservatori Onu, i giornalisti o le organizzazioni a tutela dei diritti umani. E vedono le finestre spaccate, gli atti di vandalismo che rispecchiano rabbia e non senso d’appartenenza. “Siamo circondati dal mare e viviamo terrorizzati dalle alluvioni”, dice Dil Mohammed. “E poi mancano le scuole. Mio figlio sta dimenticando tutto quello che aveva imparato nelle aule di Cox’s Bazar”.
Chi è riuscito a scappare è felice. “Morivo ogni giorno in quell’isola”, confessa Munazar Islam. Nel 2017 era sopravvissuto alla pulizia etnica buddhista nella regione di Rakhine. Il Tatmadaw gli ha ucciso tre cugini. A Cox’s Bazar si era rifatto una vita, anche se in una baracca sovraffollata in un malsano campo profughi. Era venuto volontariamente fino a Bhasan Char, pensando che avrebbe avuto condizioni di vita migliore. Si è pentito, ha pagato 350 euro a un trafficante ed ora è di nuovo con la famiglia a Cox’s Bazar, dove si trova anche Jannat Ara. Mentre fuggiva su una barca per raggiungere il marito in Malesia, Ara fu intercettata dalla marina bangladese e portata a Bhasan Char a vivere con altre tre donne. “Telefonavo piangendo ogni giorno a mamma e papà, rimasti a Cox’s Bazar”. Poi ha pagato 500 euro a un trafficante che l’ha riportata dalla famiglia. “Solo Allah sa come ho fatto a vivere lì un anno intero. Era una prigione con i tetti rossi circondata dal mare”.
“Ci danno da mangiare sempre la stessa sbobba, ogni giorno pesce e riso, pesce e riso”, si lamenta un ragazzo. “È cibo che possono mangiare i bangladesi, ma noi rohingya non possiamo ingoiarci quella roba per il resto della vita”. Un anziano, cieco da un occhio, approfondisce il tema: “Quando la gente non ha soldi, e non ha modo di guadagnarne, anche se ha cibo sul piatto, non può essere felice. Per questo vogliono scappar via tutti”. “Sì, è vero, la responsabilità del Bangladesh è servir loro cibo ogni giorno, non trovargli un lavoro”, analizza così il problema il commissario responsabile dei profughi e del rimpatrio per il Bangladesh, Shah Rezwan Hayat. “Dobbiamo ancora sviluppare una comunità, qui. E ciò richiede che arrivi più gente, non che se ne vadano. Quando arriveranno tutti i parenti di chi vive qui, meno gente vorrà andarsene”.
È proprio la mancanza di un’attività lavorativa e la scompaginazione dei nuclei familiari a spingere alla fuga dall’isola che non c’era. Lo ammette anche il poliziotto di Chattogram, una città lungo la costa, incaricato di intercettare i fuggiaschi. “Sono irritati dal fatto di non avere un lavoro. Vogliono lavorare e guadagnare. Per questo fuggono”. Il direttore del Progetto Bhasan Char, Rahed Satter, conferma: “Sono soprattutto i giovani e gli adolescenti a voler fuggire, via fiume, strada o via mare. Vanno a cercare un futuro”.
Chi resta organizza scioperi della fame e proteste, soprattutto quando arrivano gli osservatori Onu, i giornalisti o le organizzazioni a tutela dei diritti umani. E vedono le finestre spaccate, gli atti di vandalismo che rispecchiano rabbia e non senso d’appartenenza. “Siamo circondati dal mare e viviamo terrorizzati dalle alluvioni”, dice Dil Mohammed. “E poi mancano le scuole. Mio figlio sta dimenticando tutto quello che aveva imparato nelle aule di Cox’s Bazar”.
Chi è riuscito a scappare è felice. “Morivo ogni giorno in quell’isola”, confessa Munazar Islam. Nel 2017 era sopravvissuto alla pulizia etnica buddhista nella regione di Rakhine. Il Tatmadaw gli ha ucciso tre cugini. A Cox’s Bazar si era rifatto una vita, anche se in una baracca sovraffollata in un malsano campo profughi. Era venuto volontariamente fino a Bhasan Char, pensando che avrebbe avuto condizioni di vita migliore. Si è pentito, ha pagato 350 euro a un trafficante ed ora è di nuovo con la famiglia a Cox’s Bazar, dove si trova anche Jannat Ara. Mentre fuggiva su una barca per raggiungere il marito in Malesia, Ara fu intercettata dalla marina bangladese e portata a Bhasan Char a vivere con altre tre donne. “Telefonavo piangendo ogni giorno a mamma e papà, rimasti a Cox’s Bazar”. Poi ha pagato 500 euro a un trafficante che l’ha riportata dalla famiglia. “Solo Allah sa come ho fatto a vivere lì un anno intero. Era una prigione con i tetti rossi circondata dal mare”.
Carlo Pizzati
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