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lunedì 29 novembre 2021

Pena di morte - Il 30 novembre "Giornata mondiale "Città per la vita" - Allargare i consensi alla risoluzione ONU sulla moratoria

santegidio.org

“La pena di morte è una pandemia millenaria che si va esaurendo”, ha affermato in conferenza stampa Mario Marazziti, coordinatore della campagna internazionale e co-fondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte. 

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“Nel 1977 erano solo 16 i Paesi abolizionisti, mentre lo scorso anno sono stati 18 i Paesi che l’hanno usata. Un ribaltamento totale, come mostra la crescita di consenso contro questa punizione disumana e inutile: 133 Paesi hanno abolito la pena di morte oppure osservano una moratoria e non la utilizzano da almeno 10 anni”, 

ha spiegato Marazziti.

Anche negli USA gli Stati che conservano la pena capitale sono solo uno in più di quelli che non la utilizzano e lo scorso anno si è registrato il numero minore di esecuzioni degli ultimi anni. Un trend molto positivo macchiato, negli ultimi sei mesi della precedente amministrazione, da 13 esecuzioni federali, un record negativo in due secoli di storia americana”, ha osservato Marazziti. 

“Siamo convinti che Biden, che ha annunciato il blocco delle esecuzioni nel braccio della morte federale, saprà voltare pagina. La speranza è che gli USA possano astenersi o addirittura votare a favore della moratoria nella prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite”.
Nel corso della conferenza stampa è stata illustrata la grande mobilitazione che il prossimo 30 novembre, a partire dal Colosseo, a Roma, unirà 2446 città di 70 Paesi di tutti i continenti, in occasione della giornata mondiale delle “Città per la Vita”, promossa da Sant’Egidio in ricordo del giorno in cui, per la prima volta nella storia, la pena di morte venne abolita da uno Stato, il Granducato di Toscana.


Sempre il 30 novembre, alle ore 17,30, si terrà il webinar “No Justice Without Life - Per un mondo senza pena di morte”, con la partecipazione del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, di Tawakull Karman, premio Nobel per la pace 2011, e di altri attivisti impegnati nella battaglia contro la pena di morte, a partire dalla statunitense Sister Helen Prejean.

Maggiori informazioni al link https://www.santegidio.org/downloads/Conferenza-Stampa-Citta-per-la-Vita-2021.pdf


martedì 23 novembre 2021

30 novembre - WEBINAR - No Justice without Life - Per un mondo senza la pena di morte - Promosso da Sant'Egidio

santegidio.org
Nell'ambito della Giornata mondiale "Città per la vita, città contro la pena di morte" del 30 novembre, la Comunità di Sant'Egidio promuove un webinar internazionale dal titolo "No Justice without Life" con esperti, attivisti, testimoni e società civile da Africa, Asia, Europa e Nord America. L'evento si conclude con l'illuminazione straordinaria del Colosseo, simbolo della campagna globale contro la pena di morte.

 

Intervengono

Antoinette Chahine 
Attivista, ex condannata a morte, Libano 
Mario Marazziti
Coordinatore Campagna per la Moratoria universale, Comunità di Sant’Egidio

David Mathis
Ex condannato a morte, USA
Denis Mukwege
Medico, Premio Nobel per la Pace 2018, Congo RDC
Suzana Norlihan Ujen
Attivista, avvocato, Malaysia
Sister Helen Prejean 
Attivista, Congregation of St. Joseph, USA
Vitus Rubianto Solichin
Vescovo di Padang, Indonesia
David Sassoli
Presidente del Parlamento europeo



















domenica 21 novembre 2021

Iran - L'attivista dei diritti umani Narges Mohammadi arrestata rischia 80 frustate, aveva partecipato ad una manifestazione per un collega ucciso.

La Repubblica
La denuncia di Amnesty International: "Sia rilasciata immediatamente"
Una nota attivista per la difesa dei diritti umani iraniana, Narges Mohammadi, è stata arrestata a Karaj, nella provincia dell’Alborz, mentre partecipava alla commemorazione di Ebrahim Ketabdar, ucciso dalle forze di sicurezza durante le proteste nazionali del novembre 2019. 
L'attivista dei diritti umani Narges Mohammadi

Il giorno dopo ha telefonato ai familiari per informarli che era stata portata al carcere di Evin, nella capitale Teheran, per scontare la condanna a due anni e mezzo, emessa nel maggio 2021 insieme alla pena aggiuntiva di 80 frustate, per “propaganda contro il sistema”.

Da anni si batte contro la pena di morte. Narges Mohammadi è la vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran e ha collaborato alla Campagna per l’abolizione passo dopo passo della pena di morte. 

Dopo le proteste del novembre 2019, ha sostenuto pubblicamente le richieste di verità e giustizia delle famiglie delle centinaia di manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza. Era stata già arrestata arbitrariamente nel maggio 2015 e condannata, un anno dopo, a 16 anni di carcere solo per aver esercitato la sua libertà di espressione e di manifestazione. 

Nell’ottobre 2020, dopo una campagna globale portata avanti anche da Amnesty International, era stata scarcerata ma le autorità iraniane avevano continuato a minacciarla.

Le sue attività del tutto pacifiche. “Narges Mohammadi è una prigioniera di coscienza presa di mira solo per aver svolto attività del tutto pacifiche in favore dei diritti umani. Ora che è in carcere rischia addirittura 80 frustate. Chiediamo alle autorità iraniane di rilasciarla immediatamente, di annullare la condanna e di assicurare che sia protetta da ogni forma di tortura, comprese le frustate”, ha dichiarato Heba Morayaf, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Narges Mohammadi

sabato 20 novembre 2021

Sono 1236 nel 2021 le persone morte nel Mediterraneo nel tentativo di venire in Europa. Erano 858 nel 2020. Le Ong denunciato: sistematicamente ignorate le richieste di soccorso

Blog Diritti Umani – Human Rights
10 persone trovate morte sul fondo di un barcone dove erano stipate di oltre 100 migranti. La loro richiesta di aiuto è stata ignorata e hanno vagato per 13 ore al largo della Libia.


Queste morti fanno raggiungere al numero di 1236 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nel 2021.

La Sea Wath e Alarm Phone ricostruiscono la vicenda e dichiarano:
"Non ne possiamo più di queste morti annunciate e che si potrebbero impedire. Condoglianze alle loro famiglie e ai loro cari".
La ong tedesca denuncia che aveva avvistato il natante in pericolo "vicino alle navi italiane AssoVenticinque e Almisan che non hanno risposto al Mayday Relay lanciato dal nostro equipaggio".

Sono 1.236 - spiega il portavoce dell'Oim, l'agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni, Flavio Di Giacomo - le persone morte nel Mediterraneo centrale nel 2021 (erano 858 nello stesso periodo del 2020).

ES

martedì 16 novembre 2021

Confine Bielorussia-Polonia - Per soccorrere i profughi, sfidando i divieti, una "lanterna verde" indica le case dove trovare accoglienza

Avvenire
Nelle città di confine si moltiplicano le iniziative di solidarietà spontanea. Alcuni residenti accendono una luce verde davanti alle case per segnalare che lì si può ottenere aiuto


I ribelli restano chiusi in casa. Non per timore, ma perché è proprio questo il modo con cui hanno scelto di aiutare i migranti sfidando i divieti imposti da Varsavia. Un sì spontaneo agli appelli alla solidarietà che arrivano da organizzazioni internazionali come dai vescovi del Paese.


Restano chiusi in casa e lasciano sull’uscio, nei villaggi sul confine, una luce verde sempre accesa. È il segnale convenuto per indicare a chi riuscisse ad attraversare la frontiera che in quella casa troverà un pasto caldo, coperte, braccia aperte e nessuno spione pronto a chiamare la polizia. 

Non hanno nulla da nascondere e perciò hanno aperto anche una pagina sui social network. «Nella casa contrassegnata dal “semaforo verde” dalla sera in poi troverai un aiuto d’emergenza». Oltre all’inglese, la pagina offre informazioni in arabo, curdo, francese e naturalmente polacco.

Uno dei promotori, l’avvocato Kamil Syller, ha rivolto un appello cominciando dai suoi vicini nel villaggio di Dubicze Cerkiewne, nel nord-est della Polonia. 

Un po’ alla volta le “green light” si stanno moltiplicando. La legge polacca vieta di accompagnare i migranti lungo il tragitto o di farli soggiornare per più giorni. In questi casi si va incontro a un processo per favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Allo stesso tempo è vietato avvicinarsi al confine per lanciare viveri, sacchi a pelo, coperte in territorio bielorusso.

Gli attivisti delle "lanterne verdi", offrendo ospitalità per la notte e aiuti d’emergenza non sono perseguibili. Secondo l’avvocato Syller, molti migranti per timore di venire denunciati si nascondono nella foresta, sul lato polacco, anziché chiedere aiuto alla gente del posto. 

«Non ti aiuteremo a nasconderti o a viaggiare oltre – è il messaggio – . Ti aiuteremo solo a sopravvivere, come parte della solidarietà con una persona bisognosa».

I volontari non forniscono dati sulle persone fino ad ora accolte. Ma attaccano il governo, che emana «norme draconiane che presto legalizzeranno i respingimenti, pur sapendo che provocherà la morte delle persone. E noi abitanti della terra di confine, che vediamo il dramma e la sofferenza umana, non facciamo calcoli. Dobbiamo restare umani».

Nello Scavo

lunedì 15 novembre 2021

Sahara Occidentale. Saharawi, la guerra dimenticata che può travolgere il Nord Africa, dove si combatte dal novembre 2020

Avvenire
I fuoristrada disegnano piste sulla sabbia incandescente del Sahara Occidentale. Omar Deidih Brahim sobbalza, avvolto nel suo turbante verde, mentre sfreccia rapido il convoglio dei mezzi militari saharawi. «Dobbiamo allontanarci subito – esclama – o i soldati marocchini ci scaricheranno addosso l’artiglieria pesante». All’orizzonte, colonne di fumo e polvere si alzano dal deserto piatto. A seguire, i boati sordi squarciano il silenzio, in lontananza. Sono le batterie di razzi lanciate dai saharawi. La risposta del Marocco non si fa attendere. Una salva di missili si abbatte sulle posizioni da cui è partita l’offensiva, a non più di un chilometro da dove ci siamo riparati. «È così tutti i giorni, da ormai un anno – spiega Omar – questa è la seconda guerra del Sahara Occidentale, che il Marocco si ostina a negare». 


Ci troviamo nell’area di Mahbes, VI regione militare dell’esercito di liberazione popolare saharawi (Elps). Uno scampolo di deserto dimenticato, dove convergono i confini di quattro Paesi dell’Africa settentrionale. A Nord c’è l’Algeria e l’arido deserto dell’Hammada, dove da 46 anni giacciono i campi di rifugiati saharawi. A Est c’è la Mauritania. Sul lato opposto, il Marocco. All’orizzonte si intuisce il muro militare, la lunga duna fortificata fatta costruire da re Hassan II, negli anni Ottanta. Oltre 2.700 chilometri di sabbia e mine, il muro più lungo mai edificato al mondo, dopo la Grande muraglia cinese. Taglia in due come una cicatrice quello che dovrebbe essere il quarto Paese, il Sahara Occidentale. «Abbiamo atteso per trent’anni una soluzione pacifica, ma invano – dice Omar, mentre balza giù dalla jeep – vogliamo solo quello che ci spetta: il referendum per l’autodeterminazione del nostro popolo, chiesto dalle Nazioni Unite dal 1966. Non vogliamo restare l’ultima colonia d’Africa».
Un anno fa il Fronte Polisario dichiarava decaduta la tregua con il Marocco, dopo 29 anni. Oggi il conflitto prosegue. Nei campi dei rifugiati, pandemia e penuria di cibo

Inizia nel 1975 la decolonizzazione incompiuta del Sahara occidentale, dannato dalle sue ricchezze: fosfati e pesca. La Spagna è al capezzale del caudillo Francisco Franco. Era stato lui a rendere provincia la colonia del Sahara spagnolo. Due anni prima, i saharawi avevano dato vita al loro movimento di liberazione nazionale, il Fronte Polisario. Gli spagnoli si ritirano e siglano a Madrid un accordo segreto con Marocco e Mauritania, che si spartiscono il territorio. Il Polisario prende le armi. La prima guerra del Sahara Occidentale inizia qui e dura 16 anni. La gran parte dei saharawi si rifugia nei campi algerini, dove fonda, in esilio, la Repubblica araba saharawi democra- tica (Rasd). La Mauritania abbandona. Il Marocco cristallizza l’occupazione, costruendo il muro. Le armi tornano a tacere solo nel 1991, dopo che l’Onu convince le due parti a firmare un faticoso cessate il fuoco. Viene creata la Minurso (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale). Deve vigilare sulla pace e permettere il referendum. Ma i propositi restano tali, per 29 anni. Alla fine, il Polisario non riesce più a contenere la pressione dei giovani saharawi, fiaccati da 45 anni di esilio nel deserto. «Noi siamo un popolo pacifico – spiega ancora Omar – ma non ci era rimasta altra scelta. Siamo stati costretti a tornare alla guerra. Ora libereremo la nostra terra con le armi. O moriremo da martiri».

Omar ha 23 anni e parla quattro lingue. Con una mano tiene il kalashnikov, con l’altra un paio di libri: «L’arma più importante» sorride. Il suo percorso di studi è una mappa del vecchio mondo disallineato che appoggia la Rasd: le scuole superiori tra Libia e Algeria, l’Università a Cuba. Nei campi è tornato per combattere, dopo che la guerra è ripresa, il 13 novembre di un anno fa. Il casus belli ha luogo a Guerguerat, al confine Sud con la Mauritania. Un gruppo di civili saharawi blocca per settimane l’importante arteria commerciale che dal Marocco si dirige verso il meridione del continente. Si radunano nel tratto di strada che attraversa la buffer zone, tra il muro e il confine mauritano, l’area demilitarizzata sancita dall’Onu nel 1991. Mohamed VI decide di far entrare l’esercito. Il Polisario dichiara decaduta la tregua. E torna a combattere.

«Mi sono ferito a Guerguerat, proprio quella notte» racconta Abdalahi Mohamed Fadel, mentre si trascina zoppicando tra le corsie dell’ospedale militare di Bola. È un comandante del Polisario, uno dei veterani del primo conflitto. Da un anno si porta dietro una lacerazione al piede che non vuole saperne di guarire. «Sono stato il primo ferito di questa nuova guerra – dice – ma purtroppo non sarò l’ultimo. Da questo ospedale sono già passati diversi ragazzi. Quasi tutti feriti dall’artiglieria e dai droni da combattimento marocchini». È stato un drone ad uccidere, lo scorso aprile, Addah Al Bendir, capo di stato maggiore della gendarmeria saharawi. Finora, il Polisario conteggia una decina di perdite e circa venti feriti. «Il monarca del Marocco nega persino che ci sia un conflitto – dichiara il presidente della Rasd, Brahim Ghali – la realtà è che i combattenti saharawi attaccano le posizioni marocchine ogni giorno. Siamo disposti a fare qualunque sacrificio, pur di raggiungere quello che è un nostro diritto».

La sproporzione di forze è evidente. Ma il conflitto, seppure a bassa intensità, rischia di destabilizzare l’intero quadrante. A preoccupare è la profonda crisi diplomatica tra Algeria e Marocco. Negli scorsi mesi Algeri ha dapprima annunciato la rottura delle relazioni con Rabat. Quindi ha interdetto lo spazio aereo ai velivoli marocchini e francesi. Sullo sfondo, ancora una volta, la crisi del Sahara. Un popolo tagliato in due da un muro. Da un lato i saharawi rifugiati nei campi. Dall’altro coloro che vivono nei territori occupati dal Marocco. Salah Lebssir, per quanto giovane, appartiene a entrambe le categorie. «Sono nato e cresciuto nella città occupata di Smara – racconta – nel 2015 mi hanno arrestato per aver preso parte a una protesta saharawi. E mi hanno messo in carcere per quattro anni. Mi torturavano con cavi elettrici, bastoni, corde. Non potevo vedere la mia famiglia, né avere accesso a cure mediche». Oggi Salah vive ai campi, da rifugiato politico. Lavora come mediattivista per la Fondazione Nushatta. «Giriamo video – spiega – per bucare il blackout imposto dal Marocco e informare sul conflitto».

È sempre più difficile contenere la pressione dei giovani, fiaccati da 45 anni di esilio nel deserto Il dramma di un popolo tagliato in due da un muro

Dalle zone di guerra sono dovuti scappare circa 4.750 saharawi. Oggi sono rifugiati interni, di ritorno in un accampamento di rifugiati. E’ il caso del pastore Mohamed Moulud Sidahmed. Una vita trascorsa a pascolare le sue capre nei pressi della città di Tifariti, dove oggi si combatte. «Da quando è ripreso il conflitto – testimonia – ho dovuto abbandonare tutto. È troppo pericoloso, per me e per la mia famiglia. Siamo dovuti fuggire verso i campi. E non abbiamo più nulla». La guerra non è l’unico problema. Non piove da tre anni. E da due bisogna fare i conti anche con la pandemia. Il dottor Talebuya Brahim Ghali ci fa strada verso il reparto Covid dell’ospedale nazionale di Rabuni. Dodici letti e altrettanti respiratori, non certo di ultima generazione. Ci sono due pazienti ricoverati, un uomo e una donna, entrambi sulla sessantina. «Ora il virus è sotto controllo – spiega il dottor Ghali – ma c’è stato un momento in cui l’ospedale era saturo. Abbiamo dovuto evacuare pazienti verso Tindouf». In totale, dall’inizio della pandemia, nei campi saharawi si sono registrati oltre 1.700 casi e 67 morti.

Non c’è più farina, né riso, e per tutto il resto, è stato dato fondo agli stock d’emergenza.
Già 1.700 casi di Covid, e 67 morti, mancano i vaccini


Ma oltre al bilancio sanitario, a gravare su una popolazione che vive di aiuti umanitari, è stato il blocco delle frontiere, che ha reso impossibile l’approvvigionamento di cibo. «Non abbiamo più farina, né riso – constata Buhubaini Yahia, presidente della Mezzaluna rossa saharawi – e per tutto il resto, abbiamo già messo mano agli stock d’emergenza. Oggi, qui ai campi, tre donne su quattro soffrono di anemia. E un bambino su tre è malnutrito cronico». Stando ai numeri del Programma Alimentare Mondiale, l’insicurezza alimentare tra i saharawi è passata dal 77 per cento del pre-pandemia al 92 per cento di oggi. Meglio non va sul versante dei vaccini. Con fatica, negli ultimi mesi sono giunte anche quaggiù le prime dosi di Astra-Zeneca e SinoVac. Ma la percentuale dei vaccinati è ancora molto bassa. «Europa e Stati Uniti hanno un accesso privilegiato ai vaccini – denuncia il dottor Ghali – c’è uno squilibrio evidente. Spesso sono consapevole che alcuni miei pazienti non si salveranno, perché necessiterebbero di trattamenti che qui non possiamo fornire. È questa la cosa che fa più male».

Gilberto Mastromatteo 

lunedì 8 novembre 2021

Libia - Finalmente dopo un anno di attesa 172 rifugiati trasferiti in Niger con un volo "salvavita".

AnsaMed
Sono ripresi i voli che trasferiscono migranti dalla Libia in altri Paesi africani. "Siamo lieti che l'aereo che ha portato in salvo 172 richiedenti asilo fuori dalla Libia sia appena atterrato in Niger", ha annunciato su Twitter la notte scorsa l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).


"Questo è il primo volo di evacuazione in Niger da oltre un anno", sottolinea l'Unhcr, aggiungendo che il trasferimento "segna la ripresa dei voli salvavita dalla Libia e riporta la speranza ai rifugiati più vulnerabili".

Un totale di 172 "richiedenti asilo", principalmente dai Paesi africani, compresi i minori non accompagnati, sono stati evacuati in Niger dalla Libia, grazie alla ripresa dei voli umanitari.

Lo rende noto l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

"Tra gli sfollati, molti sono stati detenuti in condizioni terribili, sono state vittime delle tratte o hanno subito violenze in Libia", si legge in una nota. "Gli sfollati si sono detti sollevati di lasciare la Libia", aggiunge l'Unhcr, che specifica che il gruppo è composto da famiglie, bambini che viaggiano da soli e un bambino nato poche settimane fa. 

Le 172 persone - principalmente da Eritrea, Sud Sudan e Sudan - sono state evacuate grazie a un meccanismo di emergenza dell'Unhcr che consente ai rifugiati vulnerabili di lasciare la Libia mentre l'agenzia Onu può trovare loro "una sistemazione duratura". A fine ottobre la Libia ha autorizzato la ripresa dei voli umanitari, sospesi da quasi un anno. 

sabato 6 novembre 2021

Corridoi umanitari, a Fiumicino arrivati 44 rifugiati siriani (15 bambini). Accolti in diverse regioni italiane con precisi percorsi di integrazione

Il Faro
Fiumicino – Sono atterrati questa mattina a Fiumicino, con un volo proveniente da Beirut, 44 rifugiati siriani – tra cui 15 bambini – che vivevano da tempo nei campi profughi del Libano e che negli ultimi mesi hanno sofferto un peggioramento delle loro condizioni di vita non solo a causa della pandemia, ma anche della gravissima crisi politica, economica e sociale che sta attraversando questo Paese. 


Il loro ingresso in Italia è stato reso possibile grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, grazie al rinnovo del protocollo firmato lo scorso agosto con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, che prevede l’arrivo di altre 1000 persone in condizioni di vulnerabilità.
Dal febbraio 2016 con i corridoi umanitari sono giunti in Italia dal Libano più di 2050 profughi e, complessivamente, in Europa, circa 4mila richiedenti asilo.
Anche i rifugiati giunti questa mattina saranno accolti da associazioni, parrocchie e comunità in diverse regioni italiane (Lazio, Marche, Piemonte, Sicilia e Toscana) e, dopo aver trascorso un periodo di quarantena nel rispetto delle normative anti-covid, verranno avviati in un percorso di integrazione: per i minori attraverso l’immediata iscrizione a scuola e per gli adulti, subito con l’apprendimento della lingua italiana e, una volta ottenuto lo status di rifugiato, l’inserimento nel mondo lavorativo. I corridoi umanitari, interamente autofinanziati (dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e dall’8 per mille della Tavola valdese) e realizzati grazie a una rete di accoglienza diffusa, rappresentano un modello efficace, che coniuga solidarietà e sicurezza, tanto da essere stati replicati in altri Paesi come Francia, Belgio e Andorra.

giovedì 4 novembre 2021

Etiopia - Degenera la guerra civile - Forze tigrigne verso Addis Abeba - In Tigray da entrambi i fronti: torture sui prigionieri, strupri di gruppo e arresti su base etnica.

Il Sole 24 Ore
Le forze tigrine si stanno avvicinando alla capitale, il premier Abiy chiede di fare muro. Come si è arrivati alla crisi e perché è pericolosa per l’intera regione.


Si fa sempre più incandescente la situazione in Etiopia, il paese del Corno d’Africa nel vivo di una guerra civile fra i ribelli della regione settentrionale del Tigray e il governo di Addis Abeba. 

Il primo ministro Abiy Ahmed, Nobel per la Pace nel 2019, ha dichiarato uno stato d’emergenza di sei mesi in risposta alla avanzata delle truppe tigrine verso la capitale, facendo appello ai cittadini perché «difendano» la città dall’ingresso delle truppe separatiste. 

È l’escalation più brusca di un conflitto esploso nell’autunno 2020, quando Abiy ha dato il via all’offensiva contro la regione per replicare agli attacchi delle forze tigrine alla base militare di Sero.

Nei piani di Abiy, fresco di ri-elezione dopo il voto di luglio 2021, le tensioni si sarebbero dovute risolvere nell’arco di qualche settimana. Il blitz è sfociato in una guerra intestina che si trascina da oltre un anno e rischia, ora, di far piombare definitivamente nel caos la capitale del secondo paese più popoloso dell’Africa (115 milioni di abitanti), sede dell’Unione africana e snodo economico e commerciale di prima importanza per il Continente. 

Un report pubblicato il 3 novembre dalle Nazioni unite ha denunciato le «estreme brutalità» commesse da entrambi le parti in conflitto, senza sbilanciarsi sulle maggiori responsabilità. Gli abusi perpetrati includono torture sui prigionieri, strupri di gruppo e arresti su base etnica.

Come si è arrivati a questa crisi?
L’avanzata tigrina verso Addis Abeba è l’ultimo capitolo di una guerra che ha fatto riemergere tutte le tensioni interetniche dell’Etiopia, incrinando le ambizioni di unità nazionale incarnate dallo stessi Abiy. 
Il premier, salito al potere nel 2018, ha dissolto la coalizione di governo fra i principali gruppi etnici che aveva governato per tre decenni il paese: Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front, un blocco politico che vedeva fra le sue forze di maggior peso proprio il partito tigrino (Tigray People’s Liberation Front, Tplf). La scelta di Abiy di sciogliere il partito e dare vita a una formazione che superasse le logiche di divisione etnica non ha incontrato i favori del Tpfl, espressione di una regione che incide sul 6% della popolazione etiope (circa 7 milioni di persone nel 2020) ma gode di un’influenza notevole negli equilibri nazionali.

Le tensioni fra la capitale e i ribelli del nord erano già fermentate di fronte alla scelta dei secondi di indire a settembre 2020 delle elezioni per il consiglio di Stato tigrino, uno strappo ovviamente sgradito ad Abiy e al potere centrale di Addis Abeba. La scintilla della guerra oggi in corso sono stati gli attacchi alle basi militari etiopi nell’ottobre 2020, l’episodio che ha spinto (ufficialmente) Abiy a reagire con l’invio delle truppe a nord. L’operazione militare ha coinvolto anche contingenti in arrivo dall’Eritrea, il paese confinante ed ex avversaria della stessa Etiopia, oltre a truppe della regione Ahamara.

Il blitz previsto da Abiy è degenerato nella guerra in corso. A giugno 2021, a otto mesi dall’inizio delle ostilità, le forze tigrine hanno ripreso «al 100%» il controllo della capitale Macallè. Nello stesso mese il governo di Addis Abeba ha isolato completamente la regione, bloccandone l’accesso a beni commerciali e aiuti umanitari, producendo quello che il report delle Nazioni unite classifica come «un severo impatto socio-economico sulla regione». 

Secondo dati risalenti a ottobre, almeno 500mila persone sono ridotte alla fame, mentre la stessa Onu ha dovuto interrompere il trasporto di beni umanitari a Macallè.

Alberto Magnani

lunedì 1 novembre 2021

Guerre dimenticate - Yemen: 460 scuola colpite, 400 mila dei bambini (60%) senza istruzione, il 20% rischia la vita

RaiNews
Yemen: Il 60% dei bambini lascia le scuole attaccate. 1 su 5 rischia violenze e la vita Sono 460 le scuole colpite dal fuoco incrociato, nella guerra civile per il controllo dei pozzi di petrolio. 400mila il numero della dispersione scolastica.

'Quando siamo a scuola, sentiamo delle esplosioni. Corriamo dentro la scuola e quando finiscono, usciamo di nuovo a giocare. Uno dei miei amici è rimasto ferito in una delle esplosioni". 

In tre righe un bambino di 8 anni racconta un ordinario giorno di scuola nello Yemen. Ma non c’è nulla di ordinario in un paese dove si combatte, da anni, una guerra civile per il controllo dei pozzi di petrolio. 


Non c’è nulla di ordinario se le scuole sono diventate dei rifugi, dei bersagli e il 60% dei bambini non è tornato tra i banchi. 

 È il quadro del nuovo rapporto di Save the Children, 'Will I see my children again?' pubblicato per la quarta Conferenza Internazionale sulla Dichiarazione delle Scuole Sicure, che si terrà da oggi al 27 ottobre per proteggere l'istruzione durante i conflitti armati. 

I numeri. I pericoli Scorrendo le pagine del rapporto non è solo la scuola il “pericolo” ma anche la strada per arrivarci. 

Un bambino su 5 ha raccontato del rischio di perdere la vita, di violenze e rapimenti. Il 90% va a scuola, ogni giorno a piedi. Negli ultimi cinque anni, più di 460 scuole sono state attaccate, comprese quelle colpite da fuoco incrociato. Più di 2.500 istituti sono stati danneggiati, utilizzati come rifugi per le famiglie sfollate o occupate da gruppi armati. La dispersione scolastica è di 400mila bambini.

 ''La situazione qui è allarmante – racconta Lamia, 30 anni, insegnante a Taiz una delle città al centro dei combattimenti- I gruppi armati si muovono in sicurezza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e gli studenti li vedono ogni giorno. 

In qualsiasi momento, ci aspettiamo che sparino, e spesso accade intorno al cancello in quanto gli uomini armati hanno reso questa scuola un bersaglio militare. Questo mette bambini e ragazzi in grave pericolo. Hanno persino rubato materiali da costruzione. Si studia nella paura studiando nella paura''. La paura Non c’è nulla di ordinario in tetti colpiti dall'artiglieria, in muri e classi ridotte in macerie. 

Non c’è nulla di ordinario in bambini che fanno lezione con il rombo degli aerei da guerra in sottofondo, o in tende improvvisate in campi profughi. Chi non torna a scuola, si legge nel rapporto, è per la paura ma anche perché a scuola, il luogo sicuro, hanno visto morire compagni, amici e insegnanti. Hanno visto volare via pagine di libri e quaderni.