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sabato 18 dicembre 2021

Congo: quell’umanità miserabile nel fango, per la guerra del cobalto.

Corriere della Sera
Il Paese, vasto dieci volte l’Italia, possiede il prezioso minerale (batterie elettriche) ma è una delle nazioni più povere del mondo: dove finisce questa ricchezza? In Cina
Sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di Cobalto in Congo

Un’ordinata schiera di camion gialli affacciati sulla voragine di una miniera di cobalto: l’immagine sembra avere poco a che fare con il Congo brulicante e sgarrupato che ci rimane più impresso nella memoria, quello che colpisce i lettori e (non sempre) i photoeditor: facce e storie diragazzini che scavano cunicoli con le mani nella terra rossastra, umanità seminuda con gli occhi spalancati che si spacca la schiena dall’alba al tramonto per rubare al sottosuolo briciole di preziosi metalli africani e piazzarle nelle tasche di feroci caporali e intermediari sanguisughe. Certo, ci sono anche loro (anzi sono la maggioranza) nel ritratto collettivo dei minatori della Repubblica (sedicente) Democratica del Congo, nazione disastrata e ricchissima di materie prime (vasta quasi dieci volte l’Italia) da cui si estrae il 60-70% di un minerale oggi molto molto ricercato: il cobalto.
 

Il secondo Paese più povero del mondo
I minatori cosiddetti “artigianali”, che scavano ai margini (o di straforo all’interno dei recinti) delle grandi miniere, rappresentano numericamente il grosso della categoria. Eppure quei camion in bella fila sul ciglio dello scavo rappresentano la ricchezza vera e principale, quella che potrebbe contribuire al progresso dei 90 milioni di abitanti del secondo Paese più povero del mondo, e che invece continua a finire altrove. Sulle 100 mila tonnellate di cobalto estratte nell’ultimo anno dalle viscere del Congo, 93 mila (secondo i dati di Benchmark Mineral Intelligence ) provengono dalle miniere che operano su grande scala. Macchinari di precisione, camion per il trasporto, padroni in cravatta all’estero. Un mercato in espansione: la Banca Mondiale stima che la domanda di cobalto crescerà del 585%da qui al 2050. Il motivo principale di questa fame di “oro blu” (che già gli antichi egizi usavano per colorare manufatti) sta nel settore dell’automotive. Il resistentissimo cobalto è componente essenziale per i catodi delle batterie al litio che fanno muovere i veicoli elettrici (EV), la cui produzione (ibridi esclusi) dovrebbe balzare dai 3,3 milioni di unità vendute nel mondo nel 2021 ai 66 milioni del 2040.

Come il petrolio
Per il Congo il cobalto è sulla carta come il petrolio per l’Arabia Saudita. A estrarre la fetta maggiore del tesoro blu nazionale sono marchi esteri, dall’anglo-svizzera Glencore alle varie imprese che fanno capo a China Molybdenum (CMOC), gigante (naturalmente) statale con quartier generale a Pechino. Come lavorano queste aziende? Come trattano i lavoratori e le comunità locali? Un mese fa, mentre nell’affollatissima Glasgow il mondo cercava una via per disinnescare la mina del cambiamento climatico, alla chetichella è uscito un dettagliato rapporto di 87 pagine redatto dall’associazione britannica Raid (Rights and Accountability in Development), che in cinque miniere industriali del Congo ha condotto un’indagine durata 28 mesi con oltre 130 interviste sul campo. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione del Centre d’Aide Juridico-Judiciaire , un centro congolese specializzato in diritti del lavoro. Il risultato dell’inchiesta è una fotografia da abbinare a quella dei camion gialli sul bordo della miniera: sfruttamento, maltrattamenti, paghe avare, razzismo.

I nuovi colonizzatori
«Da quando sono arrivati i cinesi» ha raccontato un lavoratore «stiamo peggio di prima». Calci, insulti, botte: «Sono i nuovi colonizzatori». Anneke Van Woudenberg, direttrice esecutiva di Raid , ha allargato il tiro: «L’industria mineraria sostiene di operare in maniera pulita e sostenibile senza abusi dei diritti umani. Ma questa lettura non corrisponde alla realtà. La transizione verde non deve avvenire grazie allo sfruttamento dei minatori congolesi». Pierre mostra al fotografo di Raid due piccoli paninetti: sono l’unica razione di cibo quotidiano fornita ai lavoratori alla Tenke Fungurume Mine , all’80% di proprietà della cinese CMOC. Lo stipendio base di Pierre è di 3,5 euro al giorno. Se si ammala per più di due giorni, niente paga. «E devi stare zitto altrimenti sei licenziato. Il rapporto di lavoro è quello tra schiavi e padroni», ha raccontato a Pete Pattisson del quotidiano The Guardian.

Telefonini insanguinati
Il coltan dei nostri telefonini viene (anche) dal Kivu insanguinato da mille conflitti. Il regno del cobalto è nel Sud del Congo, lontano dalla zona dell’eterna guerra nel Nord-Est del Paese con epicentro Goma (dove il 22 febbraio di quest’anno è stato assassinato il nostro ambasciatore Luca Attanasio). Kolwezi è la sua polverosa capitale. La grande città più vicina è Lumumbashi, che porta il nome del grande premier riformatore Patrice Lubumba (fatto fuori nel 1961 da mercenari belgi per conto dell’ex amico e futuro dittatore Mobutu con il beneplacito dell’Occidente). Cosa direbbe Lumumba visitando le miniere a cielo aperto di Kolvezi? Guarderebbe ai camion in bella fila o ascolterebbe le parole di Pierre accettando uno dei suoi due panini quotidiani? Cosa direbbe ai rappresentanti delle grandi case automobilistiche quando sostengono che la loro filiera del cobalto è sostanzialmente pulita? Il cobalto estratto nella miniera dove lavora Pierre secondo il Guardian termina alla fin della filiera nelle batterie al litio che vanno a caricare i mezzi dei principali produttori di auto elettriche (comprese Tesla, VW, Volvo, Renault e Mercedes-Benz).

Le ditte intermediarie
Vero che negli ultimi tempi da parte di queste aziende si è registrato uno sforzo per migliorare la situazione (e togliere le mani dei bambini dall’attività estrattiva). Ma il nodo più problematico (o se volete la foglia di fico) sta nel fatto che almeno il 57% dei lavoratori in questione (secondo il rapporto di Raid) viene assunto da ditte intermediarie, subcontractor. Da qui la linea di difesa dei Big: sono loro i responsabili, cosa c’entriamo noi se le condizioni di lavoro per estrarre il nostro “cobalto certificato” sono inaccettabili? E pensare che Pierre e i suoi colleghi di lavoro la certezza di un reddito ce l’hanno comunque assicurata. I minatori artigianali lavorano in un Far West dove possono guadagnare anche di più oppure morire nel crollo di una galleria. E sono ancora la grande maggioranza. Nelle sue due miniere, il gigante Glencore ha in tutto 15 mila dipendenti. Gli artigianali, secondo una stima di un inviato dell’ Economist a Kolwezi, potrebbero essere 200 mila. Gente come Claude Mwansa, che al mese riesce a guadagnare l’equivalente di 50 dollari (in Congo il 70% degli abitanti vive con 2 dollari) scavando abusivamente nei siti delle grandi imprese. Al mattino quelli come lui controllano il prezzo del cobalto al telefonino sulla ruota del London Metal Exchange . Poi via sui motorini, con picconi e arnesi di fortuna. E alla sera il suo raccolto (come quello dei minatori bambini) finirà nei sacchi degli intermediari sulla via principale di Kolwezi. Mercanti cinesi, naturalmente.

di Michele Farina

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