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sabato 26 febbraio 2022

Guerra in Ucraina - Appello di Andrea Riccardi, Comunità di Sant'Egidio: Kiev "città aperta", per il cessate il fuoco e salvare la città

santegidio.org
In queste ore drammatiche per la capitale dell’Ucraina, Andrea Riccardi e la Comunità di Sant’Egidio lanciano, con il seguente manifesto - aperto alle adesioni di tutti -, la proposta di giungere ad un immediato cessate il fuoco e di proclamare con urgenza Kiev “città aperta”:


Il testo dell'Appello per la salvezza di Kiev


Kiev, una capitale di tre milioni di abitanti, in Europa, è oggi un campo di battaglia. 

La popolazione civile, inerme, vive in una condizione di pericolo, terrore, mentre trova riparo nei rifugi sotterranei. I più deboli, dagli anziani ai bambini, ai senza dimora, sono ancora più esposti. Ci sono già le prime vittime civili.

Kiev è una città che rappresenta un grande patrimonio culturale. Non si può pensare alla cultura europea, alla storia dell'Europa senza Kiev, così come non si può pensare alla cultura russa, alla storia della Russia, senza Kiev. La città, tra tanti monumenti, ospita siti che sono patrimonio dell’umanità.

Kiev è una città santuario per tanti cristiani, in primo luogo per i cristiani ortodossi del mondo intero. A Kiev ha avuto inizio la storia di fede dei popoli ucraino, bielorusso, russo. A Kiev è nato il monachesimo ucraino e russo. Il grande monastero della lavra delle grotte che sulla collina sovrasta il grande fiume Dnepr è un luogo santo di pellegrinaggio e preghiera millenario. Kiev è una città preziosa per tutto il mondo cristiano. 

Il destino di Kiev non lascia indifferente chi, da oriente e da occidente, guarda con passione e coinvolgimento alla città e alla sua gente. Dopo Sarajevo, dopo Aleppo, non possiamo assistere nuovamente all’assedio di una grande città. Gli abitanti di Kiev chiedono un sussulto di umanità. Il suo patrimonio culturale non può essere esposto al rischio di distruzione. La santità di Kiev per il mondo cristiano esige rispetto.

Imploriamo chi può decidere di astenersi dall’uso delle armi a Kiev, di dichiarare il cessate il fuoco nella città, di proclamare Kiev “città aperta”, di non colpire i suoi abitanti con la violenza delle armi, di non violare una città a cui oggi guarda l’umanità intera. Possa accompagnare questa scelta la ripresa di un percorso negoziale per arrivare alla pace in Ucraina.

Andrea Riccardi
Comunità di Sant'Egidio

venerdì 25 febbraio 2022

Ucraina - La guerra di Putin ma non della Russia - Proteste in 50 città russe contro la guerra, oltre 1700 arresti

RaiNews 24
Proteste contro la guerra in Ucraina si sono svolte dal pomeriggio di ieri in oltre 50 città della Russia. Ma il presidente Vladimir Putin ha ordinato una reazione molto dura. Così, stando a quanto riferisce il sito indipendente Ovd-Info, più di 1700 persone sono state arrestate.

Mobilitazioni ci sono state anche nella capitale Mosca. Un corrispondente di Ria Novosti ha raccontato di aver assistito a oltre una decina di arresti, e a controlli diretti anche su alcuni giornalisti.


Nel Paese non si assisteva a manifestazioni così di massa da quanto tornò in patria l'oppositore Aleksei Navalny, poi arrestato.


domenica 20 febbraio 2022

USA - Louisiana - Vincent Simmons - Libero dopo 44 anni di carcere per l’accusa di stupro - Processo “non equo”: giuria composta da 11 bianchi e un afroamericano

Il Riformista
Ha trascorso 44 anni in una cella di prigione per una accusa pesantissima, quella di un duplice tentato stupro di cui si era sempre dichiarato innocente. È la storia di Vincent Simmons, 69enne afroamericano della Louisiana, che lunedì è stato scarcerato dal penitenziario di Angola, considerato l’Alcatraz del sud degli Stati Uniti e noto anche per le serie tv ‘Dead Man Walking’ e ‘True Detective’.

Il momento della comunicazione della libertà a Vincent Simmons

Ci sono infatti voluti 44 anni per ammettere che il processo subito da Simmons non era stato equo: il 69enne è uscito infatti non perché ritenuto innocente, ma perché secondo il giudice Bill Bennett doveva subirne uno nuovo. Ma il procuratore Charles Riddle III ha rinunciato e in questo modo ha fatto cadere le accuse contro di lui, rendendolo un uomo libero a pochi giorni dal suo 70esimo compleanno.

Vincent Simmons all'uscita dal penitenziario Angola in Louisiana

Simmons era stato giudicato colpevole del doppio tentato stupro ai danni di Karen e Sharon Sanders, gemelle bianche e quattordicenni di Marksville, nella Louisiana rurale, nel 1977: il 69enne fu giudicato da una giuria composta da 11 bianchi e un afroamericano e condannato a anni di reclusione.

Una storia, quella di Simmons, raccontata anche dal documentario del 1998 “The Farm: Angola, Usa”. L’ormai ex detenuto nel corso degli anni aveva provato per ben 16 volte a chiedere un nuovo processo, riuscendo ad ottenere una nuova udienza grazie ad una inchiesta condotta dalla rete Cbs.

I giornalisti del network americano avevano infatti scoperto che all’epoca del processo i suoi avvocati non avevano ricevuto alcune prove fondamentali che avrebbero potuto scagionarlo. Si trattava, aveva reso noto la Cbs, di una testimonianza del medico che aveva esaminato le gemelle Karen e Sharon Sanders in cui dichiarava di non aver riscontrato alcun segno di violenza sessuale; l’altra prova erano dichiarazioni fornite dalle ‘vittime’ due settimane dopo lo stupro, in cui ammettevano alla polizia di non sapere chi le avesse assaltate perché “tutte le persone nere si assomigliano”.

Simmons dopo aver lasciato il carcere ha ringraziato Dio, che “ha tenuto viva in me la speranza, oggi ha fatto questo per me”, ha detto davanti alle telecamere che lo attendevano all’uscita dal penitenziario di Angola. Per il suo avvocato, Justin Bonus, “finalmente il tribunale gli ha reso giustizia”.

Fabio Calcagni

venerdì 18 febbraio 2022

India: ancora è prevista la pena di morte. 38 condannati a morte per gli attentati di Ahmedabad del 2008

Blog Diritti Umani - Human Rights 

Un tribunale indiano venerdì ha condannato a morte 38 persone in relazione al processo per gli attentati dinamitardi di Ahmedabad, nella parte occidentale del Paese, che nel 2008 hanno ucciso 56 persone e ferito più di 200.


L'8 febbraio, 49 persone sono state giudicate colpevoli di omicidio e associazione a delinquere per i diciannove attentati sincronizzati, commessi il 26 luglio 2008 in luoghi affollati di questa città, il principale stato del Gujarat.

La pena capitale fa ancora parte del sistema di giustizia penale in India, dove 488 prigionieri erano in attesa di esecuzione alla fine del 2021, secondo un rapporto dell'organizzazione di difesa della riforma della legge Project 39A.

lunedì 14 febbraio 2022

Carcere: 12esimo suicidio da inizio anno - Uno ogni 3 giorni e mezzo. Segnale di un grave disagio nei luoghi di pena italiani

AGI
Ancora un suicidio nelle carceri italiane, il 12esimo dall'inizio del 2022: un detenuto 24enne originario del Marocco, l'11 febbraio, nel penitenziario romano di Regina Coeli, in carcere per rapina, si è tolto la vita inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio comunemente usato per cucinare.
 

Lo rende noto il segretario generale della Uilpa penitenziari Gennarino De Fazio, rilevando che "la media si porta così a un suicidio ogni tre giorni e mezzo, cui vanno aggiunti anche i due appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in questo 2022".

"Il Governo vari immediatamente un decreto legge per mettere in sicurezza le carceri, sia sotto il profilo di quella che è una vera e propria emergenza umanitaria, sia sotto l'aspetto della tenuta dell'intero sistema, il quale vede gli operatori di Polizia penitenziaria. Servono, altresì, interventi urgentissimi per migliorare le strutture e le infrastrutture, ma soprattutto per potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, mancanti di 18mila unità.".

giovedì 10 febbraio 2022

Confine Afghanistan-Iran. Uccisi in 6 mesi 100 rifugiati afgani diretti all’Iran. Si chiamava Sohrab, aveva 16 anni, ucciso da soldati iraniani

AgenPress
Funzionari locali nella provincia di Nimruz hanno affermato che in meno di sei mesi “quasi 100 rifugiati afgani sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco dalle forze di sicurezza iraniane” ei loro corpi sono stati trasferiti in Afghanistan. Secondo i funzionari, i cittadini afgani che volevano entrare illegalmente in Iran “sono stati uccisi dall’esercito iraniano”.


Ci sono state segnalazioni da ospedali afgani di uccisioni e molti casi di feriti: “Secondo i parenti dei pazienti, i malati e i feriti sono stati picchiati al confine quando volevano attraversare il confine con l’Iran”, ha affermato Jailani Sharifi, direttore infermieristico dell’ospedale Nimruz.

I residenti di Herat e Nimruz hanno chiesto un’indagine.

“La dignità degli afgani deve essere preservata e non disprezzata. Dovrebbero deportarli con dignità”, ha detto Bismillah Sirat, residente a Nimruz.

“Gli afgani non sono visti come esseri umani e sono oppressi”, ha detto Abdul Hakim, residente a Nimruz. 

Il cadavere del sedicenne Sohrab è appena arrivato a Herat dall’Iran.
Secondo i parenti dell’adolescente, è stato colpito e ucciso da soldati iraniani a Isfahan. Sohrab era andato in Iran illegalmente per trovare lavoro.

“Sohrab jan voleva andare in Iran per lavorare lì, mi ha detto ‘Vado in Iran per aiutare mio padre qui in Afghanistan'”, ha detto Mirwais, un parente di Sohrab.

Alcune fonti di Herat affermano che diversi corpi crivellati di proiettili sono entrati nella provincia negli ultimi mesi dal confine di Islam Qala. Secondo i funzionari del Dipartimento per i rifugiati e i rimpatri di Herat, negli ultimi sei mesi, oltre 460 feriti picchiati sono entrati in Afghanistan dall’Iran attraverso il confine di Islam Qala.

“Ci sono persone che sono state picchiate, con braccia e gambe rotte”,ha affermato Mawlawi Abdulhai Manib, capo del Dipartimento per i rifugiati e il rimpatrio di Herat.


martedì 8 febbraio 2022

Assassinati a gennaio 20 difensori dei diritti umani e dell'ambiente nelle Americhe: 13 in Colombia, 1 in Messico, 3 in Brasile, 2 in Honduras

Corriere della Sera
Tredici in Colombia, tre in Brasile e in Honduras, uno in Messico oltre a quattro giornalisti, sempre in Messico.


Questo è lo sconcertante totale dei difensori e delle difensore dei diritti umani assassinati nel mese di gennaio nelle Americhe, che si confermano ulteriormente come il continente più pericoloso per chi svolge attività sociali, indaga sulle malefatte delle istituzioni o si prende cura dei gruppi più vulnerabili.

Diciotto delle persone assassinate si occupavano di protezione del territorio e dell’ambiente. Come Pablo Isabel Hernandez, leader nativo dell’Hondurasucciso il 9 gennaio, che dalla sua emittente radiofonica denunciava i rischi per l’ambiente nel dipartimento di Lempura. O come Melvin Geovany Mejia, fatto fuori il 22 gennaio a causa del suo impegno nella difesa dei diritti dei nativi Tolupa, sempre in Honduras.

La situazione della Colombia rimane sempre la più grave. Il 17 gennaio, a Puerto Gaitan, è stato ritrovato il corpo di Luz Marina Arteaga, difensora dei diritti dei contadini nel dipartimento di Meta. Una settimana dopo è stato ucciso Albeiro Camayo Guetio, ex coordinatore regionale della Guardia nativa della riserva Las Delicias, nel dipartimento di Cauca.

In Brasile, tre persone di una stessa famiglia sono state uccise il 9 gennaio nello stato di Para. Erano conosciute per il loro impegno nella protezione delle tartarughe e nella difesa dell’ambiente.

Il 27 gennaio la difensora messicana dei diritti umani Ana Luisa Garduno è stata uccisa nello stato di Morelos. Cercava giustizia per il femminicidio di sua figlia e ignoti le hanno riservato la stessa sorte.

Sempre in Messico, sono stati assassinati quattro giornalisti: José Luis Gamboa Arenas, Lourdes Maldonado, Alfonso Margarito Martínez Esquivel e Roberto Toledo.

Riccardo Noury

sabato 5 febbraio 2022

Libia - Da un telefonino nascosto la testimonianza delle attuali atrocità nel centro di detenzione di Ain Zara: «Non c’è spazio per dormire, mancano cibo e acqua. Viviamo nella paura»

Il Manifesto
Mediterraneo. Mahayadien è un rifugiato sudanese arrestato a Tripoli durante la protesta all’Unhcr. La sua testimonianza viene dalla prigione per migranti di Ain Zara, a Tripoli

Il centro di detenzione di Ain Zara

Mahayadien, nome di fantasia per proteggerne la vera identità, è un ragazzo di 24 anni nato in Darfur, nell’ovest del Sudan. Quando nel 2003 è scoppiata la guerra ha cercato riparo con la sua famiglia in Ciad. Aveva cinque anni e da allora è un rifugiato. Risponde al telefono dal centro di detenzione libico di Ain Zara, dove è recluso con centinaia di persone dal 10 gennaio scorso.

Com’è la situazione dentro?
La prigione non è grande e siamo in troppi. Nello stanzone dove mi trovo io siamo almeno 300. Viviamo uno sull’altro. Abbiamo difficoltà a dormire, non c’è spazio. Soffriamo per il cibo e l’acqua, che scarseggiano. Ci danno un pezzo di pane verso le 11 di mattina e poi un po’ di pasta, sempre e solo pasta, a pranzo e cena.

Come sono le guardie del centro?
Colpiscono i rifugiati senza motivo, con dei bastoni, soprattutto di notte. Ci fanno vivere nella paura. Qualche giorno fa ci hanno detto che saremmo potuti uscire. Alcune persone hanno provato a farlo. Ma poi ci hanno chiamato per dire che sono state rinchiuse in un altro centro, di cui non sanno il nome, dove la situazione è ancora peggiore. Sono costretti a lavorare tutto il giorno, ovviamente gratis.

Ci sono anche donne e bambini?
Sì, ma in un’altra parte della prigione. Siamo separati.

Come fa ad avere il cellulare?
A qualcuno è stato tolto, qualcun altro è riuscito a nasconderlo. Altri ancora si sono rifiutati di consegnarlo, hanno chiesto che gli fosse lasciato almeno quello.

Quando è stato arrestato?
Il 10 gennaio, davanti alla sede dell’Unhcr. Eravamo accampati là da ottobre per rivendicare i nostri diritti e perché dopo il raid di Gargaresh non avevamo più un posto dove andare. Quando sono arrivati i militari a sgomberarci ci hanno dato 10 minuti per prendere le nostre cose. Avevano pistole e bastoni. Un ragazzo è stato sparato [ferito non è morto, ndr], era proprio davanti a me.

Viveva nel quartiere di Gargaresh?
Sì, a Tripoli. Poi il primo ottobre è stato invaso dai militari. Sono stato arrestato e portato al centro di Al Mabani. Lì ho visto cose orribili. Persone uccise. Violenza continua. Dopo circa una settimana siamo riusciti a fuggire e siamo andati davanti all’Unhcr.

Quando è arrivato in Libia?
Nel 2020, dopo tanti anni da profugo in Ciad. All’arrivo avevo trovato un lavoro, so fare i conti. Ma qui la vita è difficile. Anche fuori dalle prigioni, per strada. Gli africani non sono considerati esseri umani.

Ha provato ad attraversare il mare?
No, ho troppa paura. È troppo pericoloso. Tante persone sono morte. E poi quando ci provi ti catturano e ti portano indietro, nei centri. Finisci nelle mani dei trafficanti.

giovedì 3 febbraio 2022

Orrore al confine Grecia-Turchia. 22 rifugiati respinti dalla Grecia privandoli di abiti pesanti e scarpe, in 12 muoiono di freddo

Avvenire
La denuncia del ministro dell’Interno Soylu: li hanno rimandati indietro senza scarpe né vestiti. Erdogan attacca l’Ue: «Insensibile di fronte a chi fugge per salvarsi»


Li hanno trovati nel villaggio turco di Pasakoy. Dodici corpi privi di scarpe e vestiti, stesi sul terreno a meno di dieci chilometri dalla frontiera greca, da sette anni porta principale della “fortezza Europa”. Là, giorno dopo giorno, sfilano, nascosti nella boscaglia, uomini, donne, bambini in fuga dal Medio Oriente o dall’Asia in fiamme. Obiettivo: attraversare il fiume Evros, in bilico tra Turchia e Grecia, e varcare la soglia del Vecchio Continente. La gran parte delle volte non ci riesce.

Come i dodici di Pasakoy, nel distretto di Ipsala, nell’Edirne. Secondo le autorità turche, le vittime facevano parte di un gruppo più ampio, di ventidue persone. 


Il ministro dell’Interno Suleyman Soylu ha denunciato sui social che i profughi sarebbero riusciti a raggiungere la Grecia ma sarebbero stati bloccati e ricacciati indietro della guardie di confine. Non prima, però, di essere privati dei pochi averi, inclusi gli indumenti indispensabili per proteggersi dal freddo che, dunque, li ha stroncati. Quando la polizia di Ankara li ha trovati, undici erano già morti congelati. Il dodicesimo si è spento poco dopo in ospedale. 
«Ancora una volta, l’Europa si è dimostrata priva di soluzioni, debole e insensibile», ha tuonato Soylu che non ha precisato la nazionalità, il genere o l’età dei profughi.

Dalle foto, diffuse dallo stesso ministro su Twitter, uno sembra un ragazzino. Gli ha fatto subito eco il capo della Comunicazione del governo turco, Fahrettin Altun, che ha definito l’Unione Europea «complice » di Atene. Bruxelles «non sa cosa significhi accogliere chi cerca di salvarsi la vita», ha affermato il presidente Recep Tayyp Erdogan. 

La Grecia, da parte sua, non ha risposto alle accuse, per altro non nuove. Da tempo Ankara, che ha chiesto più fondi all’Ue per i profughi, sostiene che Atene faccia respingimenti sistematici. Una pratica illegale perché impedisce loro di presentare richiesta di asilo, come garantito dal diritto internazionale. Affermazioni confermate da vari attivisti e associazioni.

Appena tre settimane fa, l’Aegean monitor reporter ha rivelato l’espulsione di oltre 26mila profughi in due anni dalla guardia costiera greca lungo la rotta dell’Egeo. È di poco tempo fa, inoltre, la vicenda dell’interprete di Frontex scambiato per migrante e ricacciato in Turchia. Quest’ultima, dalla guerra in Siria, si è ritrovata al centro dell’esodo: nel suo territorio ci sono circa 3,7 milioni di profughi. Il braccio di ferro con la Grecia è cominciato due anni fa quando Erdogan ha spinto questi ultimi a sconfinare.

Le immagini dei profughi nella morsa delle polizie dei due Stati che li rimpallavano come merce hanno fatto il giro del mondo. Poi di nuovo il silenzio. Eppure, intrappolati tra i conflitti fra Stati e l’indecisione europea, i migranti muoiono. Di malattie e di fame. Annegati o congelati. Corpi in genere senza nome, a volte perfino senza vestiti, abbandonati lungo le linee di faglia della geopolitica.