Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont al voto per l’abolizione. La forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni. Negli Usa i detenuti sono circa due milioni.
Oggi, nel 2022, sono ottocentomila i detenuti che negli Stati Uniti sono sottoposti ai lavori forzati. Una forma di schiavitù, perché in sette Stati i prigionieri-lavoratori non vengono pagati nulla, mentre a livello nazionale la paga media è di 52 centesimi all’ora, un guadagno già infinitamente minimo che viene ancora ridotto dalle ‘detrazioni’ compiute dalle amministrazioni carcerarie per tasse e spese.
Ma le cose potrebbero cambiare in Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont, che l’8 novembre votano - oltre che per il midterm - per abolire completamente ogni forma di schiavitù ancora ammessa dalla Costituzione.
Il 13esimo emendamento con cui è stata abolita nel 1865 la schiavitù infatti la riconosce ancora possibile come punizione per un crimine. E nell’America della più grande popolazione carceraria al mondo - oltre due milioni secondo i dati del 2021, con un numero sproporzionato di afroamericani - la forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni, secondo i dati dell’Aclu.
I referendum presentati tendono ad eliminare nelle loro Costituzioni statali la formula che, sul modello del 13esimo emendamento, permette i lavori forzati. Finora solo tre stati - Colorado per primo nel 2018, seguito due anni dopo da Nebraska e Utah - hanno adottato legislazioni in questo senso. E secondo gli esperti i referendum del prossimo mese potrebbero essere “l’inizio di un’ondata, sospetto che da qui a dieci anni saremo inorriditi al pensiero che nel 2022 vi erano stati che permettevano questo cose”, come ha detto Sharon Dolovich, docente di diritto dell’University of California a Los Angeles.
“Dobbiamo prendere coscienza del fatto che lo stesso emendamento che ha liberato gli schiavi ha una clausola che ha permesso di renderli di nuovo schiavi - aggiunge Robert Chase, docente della Stony Brook University che dirige il gruppo Historians Against Slavery - permettendo che uomini e donne afroamericani siano rimessi in schiavitù incarcerandoli e vendendo il loro lavoro alle corporation private”. I detenuti che si rifiutano di lavorare a queste condizioni vengono puniti, messi in isolamento o perdono la possibilità di avere la pena ridotta per buona condotta, spiega ancora Chase.
Nel 2002 alla Corte Suprema è arrivato il caso di un detenuto dell’Alabama che era rimasto legato ad un palo sotto il sole per sette ore perché si rifiutava di lavorare alla ‘chain gang’, la fila di forzati, legati ad un’unica catena, che lavorano, nelle divise a righe, sui cigli delle strade, nei campi, sui binari delle ferrovie. Nel 2016 c’è stato anche il più grande sciopero delle prigioni d’America, con 24mila detenuti che si sono rifiutati di lavorare. Ed il mese scorso i detenuti dell’Alabama hanno scioperato ancora, paralizzando i servizi di pulizie del carcere.
La questione centrale infatti è che il sistema delle carceri si basa sul lavoro praticamente gratuito fornito dai detenuti: nei mesi scorsi in California non è stata accolta la misura che avrebbe abolito la servitù involontaria, costringendo l’amministrazione statale a pagare ai detenuti il salario minimo. “Stiamo facendo ricorso” annuncia Dolovich spiegando che pagare i detenuti sotto il salario minimo è sempre “una specie di schiavitù”.
Il 13esimo emendamento con cui è stata abolita nel 1865 la schiavitù infatti la riconosce ancora possibile come punizione per un crimine. E nell’America della più grande popolazione carceraria al mondo - oltre due milioni secondo i dati del 2021, con un numero sproporzionato di afroamericani - la forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni, secondo i dati dell’Aclu.
I referendum presentati tendono ad eliminare nelle loro Costituzioni statali la formula che, sul modello del 13esimo emendamento, permette i lavori forzati. Finora solo tre stati - Colorado per primo nel 2018, seguito due anni dopo da Nebraska e Utah - hanno adottato legislazioni in questo senso. E secondo gli esperti i referendum del prossimo mese potrebbero essere “l’inizio di un’ondata, sospetto che da qui a dieci anni saremo inorriditi al pensiero che nel 2022 vi erano stati che permettevano questo cose”, come ha detto Sharon Dolovich, docente di diritto dell’University of California a Los Angeles.
“Dobbiamo prendere coscienza del fatto che lo stesso emendamento che ha liberato gli schiavi ha una clausola che ha permesso di renderli di nuovo schiavi - aggiunge Robert Chase, docente della Stony Brook University che dirige il gruppo Historians Against Slavery - permettendo che uomini e donne afroamericani siano rimessi in schiavitù incarcerandoli e vendendo il loro lavoro alle corporation private”. I detenuti che si rifiutano di lavorare a queste condizioni vengono puniti, messi in isolamento o perdono la possibilità di avere la pena ridotta per buona condotta, spiega ancora Chase.
Nel 2002 alla Corte Suprema è arrivato il caso di un detenuto dell’Alabama che era rimasto legato ad un palo sotto il sole per sette ore perché si rifiutava di lavorare alla ‘chain gang’, la fila di forzati, legati ad un’unica catena, che lavorano, nelle divise a righe, sui cigli delle strade, nei campi, sui binari delle ferrovie. Nel 2016 c’è stato anche il più grande sciopero delle prigioni d’America, con 24mila detenuti che si sono rifiutati di lavorare. Ed il mese scorso i detenuti dell’Alabama hanno scioperato ancora, paralizzando i servizi di pulizie del carcere.
La questione centrale infatti è che il sistema delle carceri si basa sul lavoro praticamente gratuito fornito dai detenuti: nei mesi scorsi in California non è stata accolta la misura che avrebbe abolito la servitù involontaria, costringendo l’amministrazione statale a pagare ai detenuti il salario minimo. “Stiamo facendo ricorso” annuncia Dolovich spiegando che pagare i detenuti sotto il salario minimo è sempre “una specie di schiavitù”.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.