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lunedì 22 maggio 2023

Sudan, un milione di persone in fuga: UNHCR chiede di garantire gli aiuti e la sicurezza dei civili

www.politicamentecorretto.com
A più di un mese dall’inizio del conflitto, l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, continua a intensificare le operazioni di risposta per oltre un milione di persone sfollate all’interno del Paese o fuggite verso i Paesi limitrofi e lancia un appello urgente per garantire la sicurezza dei civili e permettere agli operatori umanitari di muoversi liberamente in Sudan.


In Sudan, le persone affrontano i pericoli, fuggendo in particolare da Khartoum, dal Darfur e da altre aree non sicure. Secondo la Commissione Sudanese per i rifugiati (Commission for Refugees/COR), circa 88.000 rifugiati accolti dal Sudan a Khartoum sono fuggiti per mettersi in salvo dirigendosi verso il White Nile, Gedaref, Kassala Madani e Port Sudan. In queste località, l’UNHCR sta assicurando assistenza primaria ai rifugiati e alle persone in fuga, con alloggi, beni di prima necessità, acqua potabile, servizi igienico-sanitari, assistenza medica e supporto ai servizi d’istruzione.

Nel White Nile, dove sono arrivati da Khartoum oltre 75.000 rifugiati sud sudanesi, l’UNHCR sta fornendo assistenza ai nuovi arrivati, garantendo loro beni di prima necessità e un alloggio nei campi, coordinando, allo stesso tempo, la distribuzione di beni alimentari insieme al WFP (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite) e svolgendo attività di registrazione e trasferimento nei campi anche per rifugiati eritrei,etiopi, e di altre nazionalità, in arrivo nel Sudan orientale.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), oltre 843.000 persone sono sfollate all’interno del Sudan, mentre quasi 250.000 persone che hanno varcato le frontiere sono state registrate dai governi dei Paesi confinanti e dall’UNHCR.

Il numero di quanti hanno fatto ingresso in Egitto, il Paese maggiormente impegnato nell’accoglienza, aumenta rapidamente: i partner dell’UNHCR stimano che gli arrivi siano più di 5.000 al giorno. Le persone sud sudanesi che hanno fatto ingresso nel Paese sono ora quasi 110.000, secondo il governo.

I principali valichi lungo il confine meridionale egiziano sono quelli di Qustul e di Argeen. La Mezzaluna Rossa egiziana, partner dell’UNHCR, stima che il 90 per cento degli arrivi si diriga a nord verso il Cairo e altre aree urbanizzate. L’UNHCR, inoltre, è impegnata a intensificare gli aiuti e le attività di risposta ad Assuan, da dove transitano numerosi rifugiati.
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In Sud Sudan, la frequenza degli arrivi resta elevata, circa 1.500 persone al giorno. Dei 63.000 arrivati, molti sono sud sudanesi che erano rifugiati in Sudan. La maggior parte di loro arriva attraverso il valico di Renk, nello Stato dell’Upper Nile. Il centro di transito vicino al confine è sempre più sovraffollato e le risorse sono in esaurimento, fattori questi che aumentano i rischi in materia di protezione. Nonostante le criticità logistiche, il governo e i partner ONU stanno compiendo sforzi enormi per trasportare le persone verso le proprie aree di origine via terra o attraversando i fiumi su imbarcazioni.

In Ciad, l’UNHCR ha consegnato aiuti a quasi 10.000 famiglie e ha intensificato le attività di monitoraggio per far fronte ai rischi e alle esigenze di protezione più impellenti. I nuovi arrivati si trovano per la maggior parte in siti di transito in aree remote vicine alla frontiera, con risorse estremamente limitate. Insieme al governo e ai partner, questa settimana l’UNHCR ha iniziato a trasferire presso i campi esistenti i nuovi arrivati.

Inizialmente, 20.000 rifugiati sud sudanesi da poco arrivati saranno trasferiti nei campi, dove riceveranno un alloggio per il proprio nucleo famigliare e avranno accesso a istruzione e cure mediche. L’inizio imminente della stagione delle piogge aggrava la misura d’urgenza delle operazioni.

venerdì 12 maggio 2023

Iran: numero “spaventoso” di esecuzioni (209 nel 2023), l'ONU chiede la fine della pena di morte.

Blog Diritti Umani - Human Rights

Il capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha espresso oggi costernazione per il numero spaventosamente alto di esecuzioni quest'anno in Iran e ha invitato le autorità a seguire l'esempio della maggior parte degli altri Stati e ad abolire la pena di morte o a sospendere tutte le esecuzioni .


"In media finora quest'anno, oltre 10 persone vengono messe a morte ogni settimana in Iran, rendendolo uno dei paesi con il numero più alto al mondo di esecuzioni", ha affermato Türk. Dal 1° gennaio, le fonti affermano che almeno 209 persone sono state giustiziate, principalmente per reati legati alla droga e un numero sproporzionatamente alto che rappresenta le minoranze. Il numero esatto delle esecuzioni non è noto a causa della mancanza di trasparenza del governo ed è probabile che la cifra sia più alta.

"A questo ritmo, l'Iran è preoccupantemente sulla stessa strada dell'anno scorso, quando secondo quanto riferito sono state giustiziate circa 580 persone", ha affermato Türk. "Questo è un record abominevole, in particolare se si considera il crescente consenso per l'abolizione universale della pena di morte".

Solo un piccolo numero di Stati impone e applica ancora la pena di morte.

Sabato, l'Iran ha messo a morte Habib Chaab, uno svedese-iraniano della minoranza araba Ahwazi, per "corruzione sulla terra", un reato capitale secondo la rigida interpretazione iraniana della legge islamica. I rapporti di lunedì dicono che Yousef Mehrdad e Sadrollah Fazeli Zare sono stati messi a morte per crimini tra cui la blasfemia.

Fonti affermano che almeno 45 persone, di cui 22 appartenenti alla minoranza beluci, sono state messe a morte  solo negli ultimi 14 giorni. La maggior parte è stata uccisa per accuse legate alla droga.

"L'imposizione della pena di morte per reati di droga è incompatibile con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani", ha affermato Türk.

L'Alto Commissario ha esortato le autorità iraniane a stabilire una moratoria sulle esecuzioni in vista dell'abolizione della pena di morte.

ES 
Fonte: Unite Nation - Human Rights

domenica 30 aprile 2023

Migranti - Tunisia - L'obitorio di Sfax stracolmo di migranti annegati, sono più di 200

Ansa
L'obitorio centrale di Sfax, città tunisina da cui sono partiti molti migranti dall'inizio dell'anno, è stracolmo di un gran numero di cadaveri, vittime di naufragi.

Obitorio di Sfax (Foto Ansa)

"Martedì abbiamo contato più di 200 corpi, ben oltre la capacità dell'ospedale Habib Bourguiba di Sfax, il che crea anche un problema sanitario", ha detto all'Afp Faouzi Masmoudi, portavoce del tribunale di Sfax, seconda città del paese con quasi un milione di abitanti.
"Non sappiamo chi siano o da quale naufragio provengano e il numero sta crescendo", ha aggiunto, precisando che "quasi ogni giorno ci sono funerali". 

Solo il 20 aprile sono state seppellite almeno 30 persone. Ma "durante la festa musulmana dell'Eid tra il 21 e il 23 aprile scorsi sono stati ripescati molti cadaveri". 

I defunti vengono seppelliti dopo aver prelevato il loro Dna e assegnato un numero a ciascun corpo per facilitare la loro possibile identificazione da parte dei parenti, ha spiegato Masmoudi riferendo di significative "difficoltà" nel trovare un luogo di sepoltura per questi corpi, pur rilevando "sforzi concertati per seppellirli nei cimiteri comunali di Sfax".

"Dall'inizio dell'anno abbiamo contato il 24 aprile, più di 220 morti e dispersi, per lo più provenienti dall'Africa sub-sahariana", ha affermato Romdhane Ben Amor dell'Ong Forum Tunisino per i diritti economico e sociali (Ftdes), specializzata in migrazione. 

Secondo il Ftdes, "oltre il 78% delle partenze è avvenuto dalle coste di Sfax e Mahdia". Ben Amor ha ricordato che le autorità locali si erano impegnate lo scorso anno "a creare un cimitero speciale per i migranti, sulla base del fatto che non sono musulmani", ma che non è ancora pronto.

La partenza dei migranti africani dalla Tunisia si è intensificata dopo un duro discorso del 21 febbraio del presidente Kais Saied che ha condannato l'immigrazione clandestina presentandola come una minaccia demografica per il suo Paese. 

La Tunisia, alcune delle cui coste distano meno di 150 km dall'Italia, sta attraversando una grave crisi politica ed economica che sta spingendo anche molti tunisini a tentare di raggiungere l'Europa clandestinamente via mare a rischio della propria vita.

martedì 18 aprile 2023

Yemen - Scambio di 900 prigionieri - Ad un passo dalla pace, dopo 150 mila vittime e una tra le peggiori catastrofi umanitarie

Corriere della Sera
In tre giorni sono rilasciati quasi 900 detenuti. Settimana scorsa l’incontro a Sana’a per negoziare la fine del conflitto in corso dal 2015. In molti hanno riso e pianto per la felicità. In tanti sono scesi con dalla scaletta dell’aereo con il pugno alzato. Sono i prigionieri delle milizie ribelli Houthi che in queste ore stanno rientrando a casa, nell’ambito del maxi-scambio di prigionieri concordato dall’Arabia Saudita e dai rappresentanti del gruppo filo Teheran iniziato venerdì per porre fine al conflitto che devasta il Paese da oltre otto anni.
L'arrivo dei prigionieri a Sana'a

Tra chi è sceso dai voli, anche l’ex ministro della Difesa dello Yemen e il fratello dell’ex presidente, trasportati da Aden, controllata dal governo, alla capitale Sana’a. A mediare lo scambio che prevede il rilascio di 900 detenuti in tre giorni, il Comitato della Croce Rossa Internazionale. Si tratta della più grande operazione dopo il rilascio di oltre 1.000 prigionieri nell’ottobre 2020. Ma soprattutto
si tratta del primo concreto segnale che finalmente la guerra in Yemen si avvia alla sua conclusione, dopo aver provocato 150 mila morti tra combattenti e civili e una delle peggiori catastrofi umanitarie che la storia ricordi.

Sono stati 11.000 i bambini uccisi o mutilati nella guerra in Yemen

A contribuire sia ai colloqui sia al rilascio di prigionieri il riposizionamento dell’Arabia Saudita in particolare in relazioni ai rapporti con Teheran. L’intesa sottoscritta il 10 marzo scorso da Iran e Arabia Saudita, con la mediazione della Cina, per ripristinare le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016, prevede accordi anche su diverse questioni di sicurezza, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano e proprio il conflitto nello Yemen. In particolare l’accordo stabilisce che “l’Iran rispetti gli interessi sauditi nella regione e sostenga i piani di pace”. 


Inoltre, hanno aggiunto le fonti, “L’Iran ha assicurato che i suoi missili balistici non costituiranno una minaccia per l’Arabia Saudita”. Nelle scorse settimane anche il Wall Street Journal, citando fonti americane e saudite, aveva riferito di un’intesa riguardante lo Yemen raggiunta nell’ambito dell’accordo del 10 marzo scorso, secondo cui Teheran avrebbe accettato di mettere fine alle forniture di armi agli Houthi.

Marta Serafini




martedì 11 aprile 2023

L'orrore della Libia - l’Onu certifica torture e abusi: “La guardia costiera coopera coi trafficanti”- 4000 migranti nel campi di detenzione ufficiali e 18.000 in quelli illegali - di Francesca Mannocchi

La Stampa
La complicità dell’Unione europea: finanzia chi aiuta a commettere crimini contro i migranti. 


Il sei febbraio scorso - pochi giorni dopo il sesto rinnovo del Memorandum d’Intesa italo libico - il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha consegnato alla Libia il primo dei cinque mezzi finanziati dell’Unione Europea: una motovedetta capace di ospitare 200 migranti, che l’Italia consegnerà alla guardia costiera libica come previsto dal Support to Integrated border and migration managment in Libya, cioè il programma finanziato dalla Commissione Europea attraverso il Fondo per l’Africa che dal 2017 avrebbe l’obiettivo di rafforzare le autorità libiche.

Durante la cerimonia nel cantiere navale Vittoria a Adria, in provincia di Rovigo il Ministro Tajani ha speso parole incoraggianti: “Le autorità libiche hanno compiuto sforzi significativi nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari, ma i flussi sono ancora molto alti”, ha detto alla presenza della ministra degli Esteri di Tripoli, Najla Mangoush e del commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Oliver Varhelyi.

Nessuno ha fatto menzione degli abusi subiti dalle persone migranti e anzi Várhelyi ha ribadito che non solo gli aiuti ridurranno le morti in mare ma che renderanno l’Europa più sicura. Un mese e mezzo dopo, alla fine di marzo, da un altro mezzo italiano donato alla Libia, il pattugliatore 656, la Guardia Costiera di Tripoli ha aperto il fuoco per allontanare la nave umanitaria Ocean Viking che si apprestava a soccorrere un barchino in difficoltà con ottanta persone a bordo. L’Ocean Viking non è riuscita ad avvinarsi e i migranti sono stati riportati a terra, in Libia, Paese che - val la pena ribadirlo ogni volta - le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie definiscono da anni un “porto non sicuro”.

Il rapporto Onu - Passano pochi giorni e gli esperti delle Nazioni Unite pubblicano il rapporto finale della Missione d’inchiesta indipendente sulla Libia (Ffm). Un testo di 46 pagine, trasmesso al Consiglio di sicurezza Onu e acquisito dalla Corte penale dell’Aja, che sta esaminando le richieste di mandato di cattura internazionale depositate dal procuratore Karim Khan. Tre anni di lavoro sintetizzato da parole che non lasciano spazio ad ambiguità: “Il sostegno fornito dall’Ue alla guardia costiera libica in termini di respingimenti e intercettazioni ha portato alla violazione dei diritti umani”.

Quello che sostengono gli investigatori nel rapporto basato su numerosi viaggi, centinaia di interviste e migliaia di prove raccolte è che sebbene non sia possibile dare la responsabilità diretta all’Unione per i crimini di guerra, è evidente che “il sostegno fornito abbia aiutato e favorito i crimini commessi”. Lo scenario è chiaro: la guardia costiera, attrezzata e addestrata dall’Europa, ha lavorato in stretto coordinamento con le reti dei trafficanti di uomini, traffico che ha generato “entrate significative” che hanno stimolato continue e brutali violazioni dei diritti.

In pratica le istituzioni, direttamente formate dai Paesi europei, destinatarie di mezzi e motovedette, hanno agito da un lato in accordo con l’Ue, dall’altro in complicità con i trafficanti che avrebbero dovuto contrastare, lasciando impunite le reti criminali e consolidando il potere e la ricchezza delle milizie armate. Le stesse milizie che forti di quel potere e di quel denaro agiscono influenzando i governi che in Libia sono sempre due e sempre più fragili e esposti al ricatto. Gli investigatori Onu denunciano poi che le autorità non hanno concesso loro la possibilità di visitare i centri detentivi in tutto il Paese, a ulteriore dimostrazione, dopo anni di denunce che quei luoghi oggetto del Memorandum di Intesa, e destinatari di aiuti umanitari, esulino dal controllo delle istituzioni di cui l’Europa è partner ma sono piuttosto ostaggio degli opachi rapporti tra il Dipartimento contro l’Immigrazione Illegale -che dipende dal Ministero dell’Interno di Tripoli - e le reti del malaffare.

Se si leggono i numeri, incontrastabile unica prova di quanto accada in Libia, è facile capire di cosa stiamo parlando. A oggi, secondo i dati forniti da Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sarebbero 3800 i migranti presenti nei centri di detenzione che sono nominalmente sotto il controllo delle autorità, ma di fatto terra di nessuno. Infatti, i migranti riportati indietro nell’ultimo anno dai mezzi forniti alla Libia dall’Ue sono più di 20 mila. Conti alla mano vuol dire che 18 mila persone sono fuori dai radar. Probabilmente smistati al porto una volta riportati indietro e destinati a tornare oggetto di abusi e torture nei centri di detenzione illegali.

Federico Soda, ex capo missione Oim in Libia, l’aveva denunciato già due anni fa. Era il 2021 e diceva: “I dati delle persone che vengono soccorse e intercettate dalla guardia costiera libica non combaciano con il numero delle persone in detenzione, siamo molto preoccupati di non riuscire a tracciare questi spostamenti e ogni anno perdiamo traccia di migliaia di persone”. Migliaia di persone portate indietro, in un porto non sicuro, dai mezzi che l’Europa fornisce ai libici.

Libici contro libici - Non va meglio per la popolazione locale. La missione conoscitiva delle Nazioni Unite in Libia ha riscontrato che le violazioni relative alle detenzioni arbitrarie colpiscono su vasta scala anche i libici e i responsabili. Secondo gli investigatori Onu le autorità libiche reprimono sistematicamente il dissenso della società civile. L’indagine ha rilevato che le autorità libiche, in particolare i settori della sicurezza, limitino i diritti di riunione, associazione, espressione e per punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. Istituzioni sempre più deboli, spiega il rapporto, sotto il crescente potere dei gruppi armati.

Soffrono gli attivisti, soffrono le donne, vittime di una discriminazione sistematica, mentre si aspetta ancora giustizia per la sparizione della parlamentare. Le autorità libiche hanno imposto condizioni impraticabili alle associazioni. È sempre più complicato per gli operatori umanitari internazionale ottenere visti per entrare in Libia e per quelle locali ottenere permessi per registrare i gruppi civici e operare. La conseguenza è che gli aiuti richiesti tardano ad arrivare e che nessuno - compresi i gruppi come Human Rights Watch che hanno il mandato di verificare abusi e mancato rispetto dei diritti umani - riesce a operare in libertà nel Paese.
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Dal 2016 al marzo 2023, le autorità governative, sia in Tripolitania che in Cirenaica, hanno emesso quattro decisioni e regolamenti che violano la libertà di formare associazioni locali e internazionali, e limitano le organizzazioni per i diritti umani che ne denunciano le violazioni. 
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Complicità europea - La missione speciale terminerà il suo mandato il prossimo 4 aprile senza la possibilità di rinnovo. È facile immaginare che varranno a poco le raccomandazioni per istituire un meccanismo autonomo che monitori le violazioni dei diritti umani. Dopo la pubblicazione del rapporto il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha rispedito le accuse al mittente. “Non stiamo finanziando nessuna entità libica. Non stiamo dando denaro fisico ai partner in Libia - ha detto -. Quello che stiamo facendo è stanziare molto denaro, che viene poi di solito utilizzato dai partner internazionali, i nostri soldi non finanziano il modello di business dei contrabbandieri o di coloro che abusano e maltrattano le persone in Libia, al contrario. La maggior parte del denaro va a prendersi cura di queste stesse persone”.

L’anno scorso, il commissario europeo per gli affari interni Ylva Johansson ha dichiarato al parlamento europeo che “l’Ue ha dedicato circa 700 milioni di euro (760 milioni di dollari) alla Libia nel periodo 2014-2020, inclusi 59 milioni di euro (64 milioni di dollari)” per la guardia costiera. Formare e fornire mezzi è già finanziare quelle istituzioni e rappresenta quindi la responsabilità morale di una politica che l’Europa non mette in discussione nemmeno di fronte alle evidenze degli abusi.

lunedì 27 marzo 2023

Italia - Il decreto Meloni ferma la nave ong di Banksy "Luise Michel": ha fatto troppi salvataggi.

Il Riformista
Fermata la nave Luise Michel, dell’omonima ong, finanziata dall’artista di fama internazionale Banksy. Il fermo è stato eseguito dall’autorità marittima di Lampedusa. La nave è accsusata di aver violato il nuovo decreto ong del governo Meloni. Le autorità “ci impediscono di lasciare il porto e prestare soccorsi in mare” lamentano gli attivisti. 


Ieri pomeriggio la Guardia Costiera ha diffuso le ragioni del fermo. Soltanto ieri la nave aveva soccorso complessivamente cinque imbarcazioni. Alla nave era stato assegnato Trapani come porto di sbarco ma a causa delle gravi condizioni in cui si trovavano i naufraghi soccorsi la nave era stata autorizzata a raggiungere Lampedusa, dove si trova tutt’ora.

Dopo l’ultimo arrivo al molo l’equipaggio aveva scritto: “Durante lo sbarco a Lampedusa in prima mattinata, eravamo già stati informati che la nostra nave è in stato di fermo per violazione del nuovo decreto italiano”. “24 ore dopo che ci è stato detto che la nostra nave è stata fermata, non abbiamo ancora una giustificazione scritta ufficiale per la detenzione. Sappiamo di dozzine di barche in pericolo proprio di fronte all’isola in questo preciso momento, eppure ci viene impedito di prestare assistenza. Questo è inaccettabile!“, ha scritto in una nota l’equipaggio della Louise Michel. La Guardia Costiera ha diffuso nel pomeriggio una nota sui fatti.

Cinque gli interventi compiuti dalla nave ieri. Alle 2:10 il primo nei confronti di due gruppi di 38 migranti ciascuno, trasbordati successivamente sulla motovedetta Cp273 della Guardia Costiera. Alle 6,30 la nave ha sbarcato sul molo commerciale altre 78 persone che erano su un gommone, ma anche altri 39 (9 donne) che viaggiavano su un’imbarcazione in ferro di circa 7 metri, ed ancora altri 39 (6 donne e 1 minore) e poi 24 (sei donne e un minore). La Louise Michel è stata fermata per violazione del nuovo codice di condotta delle navi ong, entrato in vigore lo scorso gennaio, secondo quanto riporta una nota della Guardia Costiera. “Con la situazione che c’è in mare, trattenere una nave di soccorso in porto mentre donne, uomini e bambini rischiano di morire, è una cosa assurda”, ha detto Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans.
[...]
Proseguono intanto gli sbarchi. L’hotspot è al collasso, oltre duemila persone, la capacità sarebbe di 400. La Louise Michel era arrivata ieri a Lampedusa con a bordo 178 migranti, soccorsi su quattro diverse imbarcazioni.

Antonio Lamorte

domenica 26 marzo 2023

Afghanistan. Chiudono le poche scuole ancora aperte alle donne, niente scuola per le ragazze adolescenti

Il Manifesto
Dopo la pausa invernale, il diktat talebano è diventato assoluto. Le pressioni internazionali cadono nel vuoto. Ma l’Emirato resta spaccato in due. In Afghanistan ieri sono state riaperte le scuole dopo la pausa invernale. Per gli studenti, di ogni ordine e grado, porte aperte. Per le studentesse, solo fino alla scuola primaria. Per le ragazze più grandi infatti vige ancora il bando informale del marzo 2022.


Quando, con un testacoda indicativo delle divisioni all’interno dei Talebani, il ministero prima ha annunciato la riapertura delle scuole, per poi lasciare a casa le studentesse adolescenti. Da allora, sempre a casa, tranne rari casi. L’Afghanistan rimane dunque l’unico Paese al mondo in cui il diritto all’istruzione è negato alle adolescenti. “Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ci rallegriamo per il ritorno di milioni di bambini e bambine nelle aule della scuola primaria. Tuttavia, siamo profondamente delusi di non vedere anche le ragazze adolescenti tornare nelle loro aule”, ha dichiarato Fran Equiza, rappresentante dell’Unicef in Afghanistan, l’agenzia dell’Onu che, come molte altre organizzazioni, fatica a trovare i modi per convincere i Talebani a cambiare rotta.

La decisione, parte di un più ampio pacchetto normativo che consolida l’apartheid di genere, non è stata presa a Kabul, sede dei ministeri, ma a Kandahar, sede dell’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Che con il suo entourage detta la rotta, diversa da quella di altri Talebani più pragmatici. Consapevoli che, intorno ai diritti delle donne, si gioca non solo una partita interna, con una società insofferente alle discriminazioni, ma anche internazionale, con quella comunità diplomatica da cui dipendono aiuti umanitari, aiuto allo sviluppo, la tenuta del sistema-Paese. A Kandahar sono convinti, sbagliando, che “l’autarchia è la via maestra, il popolo è con noi”. A Kabul l’ala più pragmatica cerca di rassicurare gli stranieri. Ormai senza pazienza. Come le studentesse afghane.

Le uniche novità sono negative: ora le scuole sono chiuse anche nelle poche aree in cui, grazie alla capacità di negoziazione delle comunità locali, erano rimaste aperte prima della pausa invernale, come nelle province settentrionali di Kunduz e Balkh. “Quest’anno le scuole sono aperte alle ragazze fino alla sesta classe, stiamo aspettando altre notifiche sulle classi superiori”, ha dichiarato all’agenzia Reuters Mohammed Ismail Abu Ahmad, a capo del dipartimento dell’educazione di Kunduz.

Che le scuole sarebbero rimaste chiuse era chiaro già nei giorni scorsi, a dispetto delle pressioni crescenti per rivedere le norme discriminatorie, inclusa quella del dicembre 2022 con cui si nega alle studentesse anche l’accesso all’università. Le pressioni provengono anche dai governi islamici, oltre che dall’Organizzazione della cooperazione islamica, il cui segretario Hissein Brahim Taha di recente ha ribadito che la questione non è chiusa. Pochi giorni fa, a margine di un incontro con una delegazione di religiosi provenienti dagli Emirati arabi, il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi ha dichiarato: “La scuola per le ragazze non è haram, non è proibita dall’Islam, bloccarne l’accesso non è una questione religiosa, ma nazionale. Il governo ci lavorerà, ma ci vuole tempo”.

Il tempo trascorso è già troppo, secondo i membri dello Special Procedures, il più significativo gruppo di esperti del Consiglio per i Diritti umani Onu. In un comunicato scrivono che “le autorità di fatto Talebane non hanno alcuna giustificazione per negare il diritto all’educazione, né in termini religiosi, né tradizionali”. Da qui l’appello a “riaprire immediatamente tutte le scuole superiori e gli istituti educativi per le ragazze e le giovani donne”.

Per Catherine Russell, direttrice esecutiva dell’Unicef, “questa decisione ingiustificata e miope ha stroncato le speranze e i sogni di oltre un milione di ragazze e rappresenta un’altra triste pietra miliare nella costante erosione dei diritti delle ragazze e delle donne a livello nazionale”. Dall’Italia Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, chiede che “il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze venga revocato immediatamente, per il loro futuro e quello di tutto il Paese”.

Giuliano Battiston

venerdì 24 marzo 2023

USA - Idaho - Pena di morte - Ok del parlamento reinserire la fucilazione. Impossibile praticare l'iniezione letale per l'embargo dei "farmaci"

Ansa
In Idaho rischia di tornare il plotone d'esecuzione per i detenuti nel braccio della morte. 
Manca firma del governatore. Ultima fucilazione nel 2010 in Utah.

Camera della morte in Idaho per l'esecuzione tramite fucilazione

Il Senato statale ha approvato ieri un disegno di legge volto a rilanciare l'uso del plotone di esecuzione a causa della carenza di farmaci per l'iniezione letale. 

La misura, gia' approvata dalla Camera dell'Idaho a inizio mese, offre alle autorità la possibilità di ordinare la morte mediante fucilazione se i farmaci per l'iniezione letale non sono disponibili entro cinque giorni dall'emissione della condanna alla pena capitale.

Ora il disegno di legge arrivera' sulla scrivania del governatore repubblicano Brad Little, che non ha commentato.

Negli Usa per ora solo quattro stati consentono l'uso del plotone di esecuzione - Mississippi, Oklahoma, South Carolina e Utah - ma ne fanno ricorso molto raramente. In tutto hanno ucciso in questo modo solo tre prigionieri dal 1976. 

mercoledì 22 marzo 2023

La Tunisia sta diventando la "Nuova Libia - Stato vicino al default - Paese che non offre futuro ai giovani. Politiche xenofobe verso gli "africani" subsahariani.

Globalist
La “nuova Libia” si chiama Tunisia. Uno Stato in default. Una rivoluzione tradita. Un Paese giovane che non offre futuro ai suoi giovani. Globalist lo ha documentato in più articoli. Denunciando la miopia di una Europa, e dell’Italia, la cui politica ha un punto fermo, una vera, sciagurata ossessione: l’esternalizzazione delle frontiere. E la ricerca sulla sponda sud del Mediterraneo, di “gendarmi” da armare e finanziare perché facciano il lavoro sporco – i respingimenti – al posto nostro.

Migranti subsahariani in Tunisia
La “nuova Libia”
Di grande interesse sono le analisi di due giornalisti che del Mediterraneo sanno molto.
Annota Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Anche grazie ai finanziamenti di Ue e Italia, le partenze dalle sue coste sono state per lo più bloccate. Ma adesso, il “tappo” della Tunisia potrebbe saltare, inasprendo la pressione migratoria nel Mediterraneo in direzione dell’Europa. Non è certo solo questo aspetto a preoccupare Bruxelles, ma di sicuro è tra i fattori principali che hanno spinto finalmente Bruxelles ad affrontare il dossier tunisino e a inserirlo nell’agenda della riunione dei ministri degli Esteri in corso oggi nella capitale europea. Il Paese nordafricano si trova da tempo in una grave situazione di crisi economica e instabilità politica, e per molti analisti potrebbe essere una “nuova Libia”, non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.
[...]
La crisi economica
Alle tensioni politiche si sono presto aggiunte quelle sociali. In Tunisia scarseggiano da mesi beni di prima necessità come il petrolio, lo zucchero, il latte e il burro. I carichi di grano e altri alimenti sono stati spesso rispediti indietro per mancanza di risorse. Il tasso di inflazione viaggia ormai sulla doppia cifra e la disoccupazione giovanile è in sensibile crescita. 
[...]
I migranti
Il peggio, però, è arrivato sul fronte dei migranti. Tutto il mondo è Paese, e così capita che anche in un Paese africano i migranti (africani) diventino un buon capro espiatorio. Il 21 febbraio il presidente Saied si è infatti lanciato in un discorso xenofobo in cui ha parlato di “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” arrivati in Tunisia, portando “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. Il capo di Stato l’ha definita una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”, dato che tali migranti sono spesso di religione cristiana. Parole che hanno innescato un’ondata di violenze contro i migranti subsahariani e spinto diversi Paesi dell’Africa occidentale a organizzare voli di rimpatrio per i cittadini timorosi. Molti dei circa 21 mila migranti dell’Africa subsahariana che vivono in Tunisia si sono ritrovati senza lavoro e senza casa.
[...]
La tensione cova invece sotto la cenere nei quartieri periferici della capitale e dei principali centri urbani, dove non si arriva a fine mese né si trovano generi alimentari di base nei supermercati come caffè, farina e latte. I migranti subsahariani vivono nascosti dopo pogrom e aggressioni degli ultimi giorni di febbraio. E fuggono. Come riporta l’agenzia Nova, che ha avuto accesso ai dati del Viminale, sono almeno 12mila le persone partite dalle coste tunisine dal primo gennaio al 13 marzo, più di 170 sbarchi al giorno, con un aumento del 788% rispetto ai 1.360 arrivi dello stesso periodo del 2022. La Libia è stata superata. E da queste parti i mercenari russi della Wagner non c’entrano, non si sono mai visti.

domenica 19 marzo 2023

Eritrea - Rapporto ONU - Situazione dei diritti umani disastrosa: torture, detenzioni inumane, sparizioni. Nessuna collaborazione dei governanti.

Nigrizia
«La situazione dei diritti umani in Eritrea rimane disastrosa e non mostra nessun segno di miglioramento». Lo dice un rapporto presentato ieri dall’Alta commissaria aggiunta al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, Nada Al-Nashif.


La commissaria ha spiegato che l’Onu ha raccolto «informazioni credibili» che danno conto di «torture, condizioni di detenzione inumane e sparizioni forzate». Il rapporto rileva che «è allarmante che tutte queste violazioni dei diritti umani siano compiute nella totale impunità». E sottolinea che le autorità di Asmara non hanno offerto nessuna collaborazione.

Il paese del Corno d’Africa, governato da Isaias Afwerki fin dall’indipendenza dall’Etiopia (1993), non da oggi si segnala per l’autoritarismo e il disprezzo di ogni forma di democrazia.

Una dittatura che ha stabilito la leva universale obbligatoria e di durata illimitata, provvedimento che è diventato ancora più stringente con il sostegno dell’esercito eritreo alla truppe etiopiche nella guerra del Tigray scoppiata nel novembre del 2020. Il coinvolgimento nella guerra civile etiopica è stato fortemente criticato dalla Chiesa cattolica.

E in territorio etiopico l’esercito di Asmara si è macchiato – sostengono numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani – di atrocità, in particolare del massacro di centinaia di civili nella città di Aksum e nel villaggio di Dengolat.

Isaias Afwerki (che in sede Onu si è schierato con la Russia che ha aggredito l’Ucraìna) ha respinto le accuse a carico del suo esercito definendole «fantasie, frutto di disinformazione». Questo del resto è sempre stato l’atteggiamento del regime eritreo: chiudersi a riccio, negare tutto e farsi beffa della comunità internazionale.

domenica 12 marzo 2023

Nuovo naufragio al largo della Libia, 30 dispersi e 17 sono stati soccorsi. Alarm Phone: "L'Italia ha ritardato i soccorsi"

Il Gazzettino del Sud
Il barcone con 47 migranti per il quale era stato lanciato un allarme nelle ore scorse è naufragato: il bilancio è di 30 dispersi e 17 soccorsi . Il barchino si è capovolto durante il trasbordo delle persone sulla nave Froland, inviata tra i mercantili sul posto dalla centrale operativa della stessa Guardia costiera.
Il barchino con 47 migranti a bordo individuato 

Un filmato di Sea-Watch, pubblicato dal giornalista Sergio Scandura di Radio Radicale, inquadra il barcone in fortissime difficoltà, e i mercantili che tentano di fargli scudo dalle onde ma non in grado di intervenire. «Dopo aver chiamato il centro di soccorso di Tripoli - afferma Sea-Watch, che ha monitorato il barcone attraverso il velivolo Seabird - abbiamo richiamato il Centro di soccorso di Roma e chiesto chi, a quel punto, coordinerà i soccorsi, il funzionario ha riattaccato il telefono».

Poi è partita l’operazione Sar. Troppo tardi: l’allarme era stato lanciato già ieri, quando l’imbarcazion e si trovava, secondo Scandura, a 113 miglia a nord ovest da Bengasi, alla deriva e con il motore in avaria. L’area è la stessa dell’operazione Irini, in cui sono impegnate anche navi italiane.

martedì 7 marzo 2023

Gran Bretagna - Migranti - Violazione norme internazionali - Chi arriva in modo illegale sarà arrestato e deportato in Ruanda. Anche richiedenti asilo e minori

Il Riformista
Chi arriverà attraversando la Manica sarà detenuto e portato in Paesi “sicuri”, sarà bandito a vita dalla Gran Bretagna e non potrà mai ottenere la cittadinanza britannica. Questa è la linea dura del primo ministro Rishi Sunak contro gli sbarchi illegali che risponde a un’emergenza che ha visto nel 2022 l’arrivo sulle coste britanniche di oltre 45 mila persone a bordo di imbarcazioni di fortuna: una questione diventata rapidamente una priorità per l’opinione pubblica e una spina nel fianco per i governi conservatori.


Martedì 7 marzo il governo presenterà una legislazione che ha già scatenato le critiche dei gruppi per i diritti umani e che funzionari governativi ammettono essere “al limite della legalità internazionale”. 

Così decine di migliaia di persone potrebbero essere detenute in siti militari e il ministero dell’Interno avrà l’obbligo legale di deportarle “appena è ragionevolmente fattibile”. Norme che si applicheranno anche alle famiglie e perfino ai minori non accompagnati. Non solo, tutti gli immigrati illegali si vedranno inoltre comminare un bando a vita a tornare in Gran Bretagna e non potranno mai più ottenere la cittadinanza britannica.

Il magnanimo governo d’oltremanica ha promesso di aprire rotte “legali e sicure” per i richiedenti asilo, anche se non ha specificato in che modo: “La possibilità di insediarsi in questo Paese e di diventare cittadini britannici non è un diritto umano, è un privilegio – ha dichiarato una fonte governativa –. Questo è perché bandiremo gli immigrati illegali”. Poi il premier Sunak ha aggiunto che “l’immigrazione illegale è ingiusta per i contribuenti, è ingiusta per quelli che vengono qui legalmente ed è sbagliato che le gang criminali siano autorizzate a continuare il loro commercio immorale. Dunque capiamoci bene: se vieni qui illegalmente, non potrai rimanere”.

Dura la replica del Consiglio per i Rifugiati: “In questo modo decine di migliaia di profughi che avrebbero diritti all’asilo finiranno ingabbiati come criminali – e aggiunge – che il piano del governo rappresenta una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati”. Secondo il Consiglio, due terzi dei migranti sbarcati lo scorso anno avrebbero diritto all’asilo.

Una notizia che può non sembrare nuova, infatti già l’anno scorso il governo britannico aveva provato a deportare gli immigrati illegali in Ruanda, Paese col quale ha stretto un accordo in merito, ma i voli erano stati bloccati da un intervento all’ultimo minuto della Corte europea per i diritti umani. Adesso Sunak intende inserire nella nuova legge un “freno” alla giurisdizione della Corte (e l’ala destra del suo partito sta facendo pressione perché Londra si ritiri del tutto dalla Convenzione europea sui diritti umani).

Dopo il successo ottenuto con l’accordo sull’Irlanda del Nord, Sunak intende scavare un solco con l’opposizione laburista, che resta saldamente in testa nei sondaggi. Una mossa che va letta soprattutto in chiave elettorale.

L’immigrazione illegale infatti è tornata in cima alle priorità dell’opinione pubblica dei sudditi della Corona, subito dopo l’economia e la sanità: e l’87% del pubblico ritiene che il governo stia gestendo male la questione. Dunque il premier ha fatto dello stop agli sbarchi una delle sue priorità per quest’anno. L’atteggiamento dei britannici verso l’immigrazione è però ambivalente: dopo la Brexit, contrariamente a quello che si poteva pensare, c’è stato un boom di arrivi dall’estero, più di un milione solo nell’anno scorso.

Questi però sono tutti immigrati legali, per lo più studenti o personale qualificato, rispetto ai quali l’opinione pubblica è abbastanza rilassata: l’inquietudine si manifesta invece nei confronti degli sbarchi illegali, di fronte ai quali c’è la sensazione di una situazione fuori controllo. È contro la mancanza di regole e il rischio di un afflusso indiscriminato che si concentra, quindi, l’ostilità degli inglesi. Almeno per ora.

Riccardo Annibali

Bangladesh - Enorme incendio nel campo profughi Rohingya, Cox’s Bazar. 12mila restano senza rifugio

Huffpost
Enorme incendio nel campo profughi Rohingya in Bangladesh, 12mila restano senza rifugio
Selim Ullah: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo"


Un enorme incendio ha colpito il campo profughi per persone di etnia rohingya di Balukhali, vicino alla città di Cox’s Bazar, nel sudest del Bangladesh. Nessun ferito è stato segnalato, ma le fiamme che sono divampate nel Campo 11 di Cox's Bazar hanno rapidamente inghiottito i rifugi di bambù e tela cerata, lasciando 12mila persone senza la loro abitazione.

"Circa 2.000 rifugi sono stati bruciati e 12.000 cittadini birmani sfollati con la forza sono rimasti senza riparo", ha dichiarato all'AFPil Commissario per i rifugiati del Bangladesh, Mijanur Rahman.

Secondo un portavoce della Croce Rossa Internazionale i danni sono “enormi”. L’incendio, oltre ad aver distrutto 35 moschee e 21 aree destinate all’insegnamento, ha danneggiato gli impianti idrici del campo.

Il rifugiato Selim Ullah, padre di sei figli, ha riferito di non aver "potuto salvare nulla”. “Tutto è andato in cenere. Molti sono senza casa. Non so cosa ci succederà", ha detto il quarantenne, aggiungendo: “Quando eravamo in Myanmar abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi. Le nostre case sono state bruciate. Ora è successo di nuovo."

I rohingya sono un grande gruppo etnico di religione musulmana, le cui comunità si trovano per lo più in Bangladesh e in Myanmar. La maggior parte dei profughi che vivono nel campo di Balukhali è scappata dal Myanmar a partire dal 2017, quando l’esercito birmano aveva compiuto una serie di brutali operazioni militari, con stupri sistematici e uccisioni indiscriminate. 

Tutt'oggi tantissimi rohingya decidono di attraversare il confine per rifugiarsi in Bangladesh, dal momento che nel Myanmar, paese a maggioranza buddista, il gruppo etnico musulamano è vittima di forti discriminazioni. Così molti cercano protezione nei vicini campi profughi che sono per lo più improvvisati, sovraffolati e con pessime condizioni sanitarie. Proprio in questi campi è piuttosto frequente che si verifichino incendi anche di natura dolosa: nel marzo del 2021, 15 profughi morirono e circa 50mila rimasero senza casa a causa di un enorme incendio che colpì sempre il campo di Balukhali. Ora le autorità del Bangladesh stanno indagando sull'origine di quest'ultimo disastro e non escludono un atto di sabotaggio alla sua base. Un uomo è stato infatti arrestato. Tuttavia, come dichara Faruque Ahmed, un funzionario della polizia locale, "le ragioni dell'incendio non sono ancora note".

lunedì 6 marzo 2023

Egitto - 15 anni di carcere a Ezzat Ghoniem fondatore di una ong per la difesa dei diritti umani - Pene per altri 14 attivisti

Focus on Africa
Il processo nei confronti di 14 attivisti e difensori dei diritti umani, tra i quali Ezzat Ghoniem, fondatore del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà, è finito come purtroppo si temeva.

Tra i vari imputati, Ezzat Ghoniem è stato condannato a 15 anni. Stessa pena per l’avvocato Muhammad Abu Horeira, dieci anni per la moglie Aishaa al-Shater e per Sumaya Nassef, cinque per l’avvocata Hoda Abdelmoneim.

Il verdetto corrisponde alle politiche criminalizzanti dell’era al-Sisi: chi si occupa di diritti umani è giudicato colpevole di reati quali adesione, finanziamento e sostegno al terrorismo nonché di diffusione di notizie false.

Le udienze del processo, celebrato da un tribunale di emergenza (dello stesso genere di quello che sta processando Patrick Zaki), si sono svolte a porte chiuse all’interno del complesso penitenziario di Badr. Gli avvocati, che non avevano potuto avere accesso agli atti giudiziari nel corso delle indagini, non hanno neanche avuto il permesso di interrogare i testimoni dell’accusa.

Nel processo non si è fatto minimamente cenno alle torture, compresa la violenza sessuale, e alle sparizioni forzate subite dagli imputati, in carcere sin dal 2018. Da quell’anno, nessuno di loro ha potuto vedere i familiari, con l’eccezione di Hoda Abdelmoniem, che li ha incontrati una sola volta.

Riccardo Noury

sabato 4 marzo 2023

Bielorussia - 10 anni ci carcere al Nobel per la pace e attivista Bialiatski. Il presidente Lukashenka manda l'opposizione nelle colonie penali di Putin

Il Foglio
Ieri un tribunale di Minsk ha condannato l’attivista bielorusso Ales Bialiatski a dieci anni di carcere in una colonia penale di massima sicurezza per “contrabbando e finanziamento di azioni che violano gravemente l’ordine pubblico”.
 
L’attivista per mi diritti umani bielorusso Ales Bialiatski

Sessant’anni, è stato uno dei tre vincitori del premio Nobel per la Pace 2022 ed è uno dei primi leader del movimento democratico in Bielorussia: ha fondato Viasna, primavera in bielorusso, il gruppo per i diritti umani nato 1996 dopo il referendum che ha consolidato l’autoritarismo del presidente e stretto alleato russo, Aljaksandr Lukashenka. 

Bialiatski era stato arrestato nel 2021, come migliaia di bielorussi, a seguito delle proteste – brutalmente represse – contro il dittatore di Minsk e ha già scontato una condanna di tre anni per evasione fiscale nel 2011: si è sempre professato innocente.

Insieme a lui ieri sono stati condannati altri tre attivisti democratici di Viasna, Valentin Stefanovich, condannato a nove anni di carcere, Vladimir Labkovich, a sette, e Dzmitry Salauyou, a otto anni in contumacia. Tutti e tre negano ogni accusa ed è evidente come questa condanna sia solo un ennesimo tentativo di Lukashenka di mettere a tacere l’opposizione del paese: il vero capo d’accusa di Bialiatski e dei suoi colleghi, secondo il regime, sono gli anni di lotta per i diritti, la dignità e la libertà del popolo bielorusso. 

I prigionieri politici in tutto il paese secondo Viasna sarebbero 1.458, mentre le autorità negano ogni numero. La sentenza di Bialiatski è stata definita dalla leader dell’opposizione bielorussa in esilio, Sviatlana Tsikhanouskaya, “spaventosa”, mentre la moglie dell’attivista, Natalya Pinchuk, che a ottobre davanti al comitato norvegese per il Nobel aveva dato voce alle parole del marito dal carcere, ha detto che il processo è stato “ovviamente contro i difensori dei diritti umani per il loro lavoro sui diritti umani”. 

Il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha definito il processo “una vergogna quotidiana tanto quanto il sostegno di Lukashenka alla guerra di Putin” in Ucraina.

giovedì 2 marzo 2023

Dopo la pandemia torna il Congresso dei ministri della giustizia del mondo di Sant’Egidio contro la pena di morte - "No Justice Without Life" - Continuare il cammino verso l'abolizione in un tempo di guerra

ANSA
"Il motivo della battaglia contro la pena di morte è ancora in quelle riflessioni di Cesare Beccaria nei Delitti e delle Pene, la pena di morte non ha senso perchè non ha una funzione sociale, l'Italia e la Comunità di Sant'Egidio sono sempre state in prima linea su questo fronte ma c'è ancora molto lavoro da fare". 


Con queste parole Anna Ascani, vicepresidente della Camera dei Deputati, ha aperto i lavori di "No justice without life. Congresso internazionale dei ministri della Giustizia a Roma", promosso dalla Comunità di S. Egidio nell'aula nuova del Palazzo dei Gruppi parlamentari-Camera dei deputati.


"Noi qui - ha detto prendendo la parola Mario Giro - vogliamo essere un grido per la vita, parlare di fine della pena di morte in tempo di guerra sembra un paradosso, la violenza delle battaglie e delle ritorsioni diviene quasi legittima, invece noi non crediamo che la guerra sia la soluzione a ogni controversia e che la pena di morte non sia la soluzione al crimine ma una condanna irreversibile e rispondere al male con il male apre a un circolo infinito". "Non dobbiamo pensare che il male è irriducbile - ha insistito - crediamo che la pena di morte debba essere fermata perchè comunica l'idea che la violenza sia compagna della vita dell'uomo" mentre "lo stato non chiede sangue in cambio, non rinuncia a punire ma si rinuncia all'irreversibilità, ci sono troppe morti, proviamo a dire basta e a difendere ciò che di ancora irriducibilmente umano c'è nell'uomo".

"Nel quadro di un vasto impegno contro la pena di morte - spiega anche una nota -, dal 2005 Sant'Egidio ha dato vita a incontri regolari di ministri della Giustizia di paesi sia abolizionisti e che retenzionisti, al fine di creare uno spazio di dialogo e di interlocuzione tra diversi sistemi di esercizio della giustizia, e favorire i processi di moratoria e di abolizione della pena capitale. 

Questo metodo di lavoro ha mostrato negli anni notevoli aspetti positivi, con il coinvolgimento di un sempre più largo numero di paesi, di autorità dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e di papa Francesco, che non ha mai fatto mancare il suo sostegno a questo processo. 

E' inoltre possibile ascrivere ai Congressi dei Ministri della Giustizia una serie di eventi di successo che hanno portato avanti la campagna abolizionista: la firma del Protocollo Opzionale della Mongolia e la sua successiva abolizione de jure della pena di morte (2015); l'eliminazione della pena di morte dal codice penale della Guinea (2016); la firma del Protocollo Onu sulla pena di morte della Costa d'Avorio (2013); abolizione da parte del Burundi (2009), del Togo (2009), del Gabon (2010), della Repubblica Centrafricana (2022) e Zambia (2022)".

domenica 26 febbraio 2023

Migranti - Tragico naufragio in Calabria - Decine di morti tra cui un neonato, molti dispersi.

Corriere della Sera
I cadaveri sono stati trovati stamattina sulla spiaggia in località «Steccato», a venti chilometri da Crotone

Sale a 33 il numero dei migranti morti stamattina a «Steccato» di Cutro, a 20 chilometri da Crotone, dopo che il peschereccio sul quale si trovavano si è spezzato in due. Un bilancio che è destinato certamente ad aggravarsi. Secondo quanto si apprende dalle operazioni di soccorso, erano circa 250 i migranti ammassati sul vecchio barcone che non ha retto al moto ondoso. 


Per questo l’ipotesi che viene fatta da investigatori e soccorritori è che le vittime del naufragio siano dunque molte di più delle 33 accertate fino adesso. Tra le vittime numerosi bambini (anche un neonato).

Al momento sono circa un centinaio le persone tratte in salvomentre continuano le ricerche. Fonti della prefettura di Crotone parlano di 33 morti, 70 dispersi e 58 sopravvissuti, di cui quattro sono stati trasferiti in ospedale.

Il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, ha posto il problema delle salme: «Crotone era già in sofferenza, ma ci organizzeremo, anche nei vari paesi. Ci vuole solidarietà anche in questo».

L’imbarcazione partita dalla Turchia - su cui viaggiavano migranti in arrivo da Iran, Afghanistan e Pakistan - sarebbe finita contro gli scogli a causa del mare agitato. Secondo quanto si apprende, dai racconti fatti dai superstiti ai soccorritori, erano almeno 250 i migranti ammassati sul vecchio barcone che non ha retto al moto ondoso. Sul posto polizia, carabinieri, vigili del fuoco, 118 ed istituzioni civili locali. 

Secondo le fonti, i migranti «non hanno fatto in tempo a chiedere aiuto» e alcuni dei sopravvissuti avrebbero raggiunto la costa con i propri mezzi. Sono ancora molti i cadaveri da recuperare. In mare si notano tantissimi pezzi di legno. È quello che rimane dell’imbarcazione. In una zona della spiaggia, accuditi dai volontari, ci sono i sopravvissuti e poco distante una lunga file di sacchi bianchi. 

Un elicottero della Guardia Costiera sorvola la zona, mentre di fronte alla costa pattuglia una motovedetta della Capitaneria di Porto, che però non si può avvicinare a causa delle onde alte.

domenica 19 febbraio 2023

Pennsylvania - Il Governatore Josh Shapiro vuole abolire la pena di morte e dichiara che comunque non firmerà nessuna condanna a morte

nodeathpenalty.santegidio.org 

Può il futuro della Pennsylvania essere senza la pena di morte?
Il 17 febbraio 2023 il Governatore Josh Shapiro ha invitato l’Assemblea generale dello Stato ad abolire la pena di morte, dichiarando, che, comunque, non firmerà alcun mandato di esecuzione.
 
Governatore della Pennsylvania Josh Shapiro

Parlando alla Mosaic Community Church di West Philadelphia ha detto: “Ogni volta che ne arriverà uno sulla mia scrivania, firmerò una moratoria”e ha aggiunto che: “Il Commonwealth non dovrebbe occuparsi di mettere a morte le persone. Punto. Lo credo nel mio cuore. Questa è una dichiarazione fondamentale di moralità”. E infine l’ex procuratore generale ha concluso dicendo: «Lavorate con me per cancellarla una volta per tutte».

Si è dunque accesa una nuova speranza nel lungo cammino per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

La storia della pena capitale in Pennsylvania è complessa. Nel 1972 la Corte Suprema statale dichiarò che la pratica, in uso sin dal 1600 con aggiustamenti sulle modalità di esecuzione, era incostituzionale. Fu ripristinata nel 1974 ma sospesa di nuovo tre anni dopo. È tornata in vigore nel 1978 nella formula tutt’ora in uso ma di fatto è inapplicata da 25 anni. Shapiro vuole andare oltre la moratoria delle esecuzioni firmata dal predecessore Tom Wolf nel 2015 e licenziare definitivamente il boia. Il Governatore ha raccontato di aver cambiato idea sulla pena capitale dopo aver sentito parlare di «grazia» tra i parenti delle vittime della sparatoria alla sinagoga di Pittsburgh del 2018. I sondaggi segnalano, tra l’altro, che il favore degli statunitensi verso la pena di morte (legale in 27 Stati su 50) è in calo.

Nel braccio della morte in Pennsylvania, oggi, ci sono 101 prigionieri. Certamente questa posizione del governatore non convince i conservatori che la ritengono troppo frettolosa e può significare diventare sordi alle preoccupazioni dei cittadini sulla sicurezza, oltre che «irrispettoso nei confronti delle vittime dei crimini più gravi». Ma in fondo proprio i parenti delle vittime hanno convinto Shapiro a eliminare la morte per mano dello Stato!

sabato 18 febbraio 2023

Focus - In Italia sono 728 i detenuti al 41 bis e sono 1.298 quelli a non sono concessi i benefici.

Wired
Il caso dell'anarchico Alfredo Cospito ha aperto il dibattito sul carcere duro. I numeri del ministero della Giustizia sulle persone alle quali viene applicato


Sono 728 le persone detenute al 41 bis, il carcere duro per i mafiosi introdotto dopo la strage di Capaci in cui venne ucciso il giudice Giovanni Falcone nel 1992. I numeri arrivano dall'edizione 2022 della Relazione sull'amministrazione della giustizia elaborata dal'omonimo ministero.

Una questione, quella del cosiddetto carcere duro, entrata nel dibattito politico in relazione al caso di Alfredo Cospito. Ovvero l'anarchico condannato per terrorismo che più di tre mesi fa ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis e contro l'ergastolo ostativo, la formula che nega la concessione di benefici che vanno dai permessi premio per uscire dal carcere fino al trasferimento agli arresti domiciliari.

Il primo è il regime al quale il membro della Federazione anarchica informale è attualmente sottoposto, il secondo è quello che rischia di vedersi applicare. Il caso di Cospito, rispetto al quale la Corte costituzionale, ha quindi riacceso il dibattito politico rispetto a questi due regimi detentivi. Wired ha così chiesto al ministero i dati per capire quante siano le persone che si trovano in questa situazione.
I detenuti al 41-bis

Si tratta di un regime carcerario che viene riservato in modo particolare ai mafiosi. Ovvero agli affiliati ad un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Ci sono però anche 4 personecondannate per terrorismo, una di queste è Cospito, che si trovano in questa condizione. Ecco quello che dicono i numeri del ministero guidato da Carlo Nordio, aggiornati al 31 ottobre 2022.

La prima parte del grafico mostra la suddivisione complessiva delle affiliazioni dei detenuti al 41 bis. Si tratta di 242 camorristi, 232 membri della Cosa nostra siciliana e 195 ‘ndranghetisti. La parte in giallo è resa più in chiaro nella seconda parte del grafico: 20 i membri della Sacra Corona Unita e 3 quelli della Stidda. La prima è un’organizzazione criminale attiva in Puglia, la seconda nelle province siciliane di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa.

Non ci sono strutture carcerarie nel Sud che ospitino persone detenute al 41 bis. Si trovano tutte nel centro nord. Tra le maggiori ci sono quello dell'Aquila, dove le persone al carcere duro sono 143 e si trovano tutte le 12 donne sottoposte a questo regime, e quello di Opera, a Milano. Ovvero la struttura dove è detenuto Cospito insieme ad altre 94 persone che condividono la sua condizione.

Sempre alla data del 31 ottobre, l'età media delle persone sottoposte al 41 bis è di 58 anni, contro i 56 dell'anno precedente. Il 46,7%, anche questo dato in crescita rispetto al 40% del 2021, ha almeno 60 anni.
L'ergastolo ostativo

In totale sono 1.298 i detenuti cui viene applicato l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario, ovvero quella norma che impedisce la concessione di benefici. Tra questi, ci sono 16 donne. Come si intuisce dai numeri, non si tratta esclusivamente di persone detenute per associazione mafiosa. Che pure è un reato ben rappresentato tra i soggetti con l'ergastolo ostativo: sono 1.113 quelli che sono stati ritenuti colpevoli.

Il numero è maggiore rispetto a quello dei mafiosi al 41 bis perché questi ultimi sono quelli che, potendo comunicare con l'esterno, potrebbero continuare a dirigere l'organizzazione. Circostanza che non vale per tutti gli ostativi, i quali non possono uscire dal carcere nemmeno in permesso premio, ma sono autorizzati a comunicare con i famigliari senza censure.

venerdì 17 febbraio 2023

L’Alto commissario Onu sui diritti umani chiede al governo di non approvare il decreto sulle ong - "Saranno a rischio più vite. Non demonizzare azioni umanitarie"

Askanews
“Osserviamo tutti con orrore la difficile situazione di coloro che attraversano il Mediterraneo, e il desiderio di porre fine a questa sofferenza è profondo. Ma questo è semplicemente il modo sbagliato per affrontare la questione”. Così l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, il quale ha rivolto un appello al governo Meloni a non approvare il dl Ong con la stretta per le Navi che salvano i migranti in mare.


“Più persone in difficoltà soffriranno e saranno a rischio più vite in assenza di un aiuto tempestivo, se questa legge verrà approvata. Secondo il diritto internazionale, un capitano ha il dovere di prestare immediata assistenza a persone in pericolo in mare e gli Stati devono proteggere il diritto alla vita. Ma con questa proposta, una nave Sar nelle vicinanze sarebbe obbligata a ignorare le chiamate di soccorso semplicemente in virtù di aver già salvato altri” naufraghi, costringendo “anche vittime di tortura, violenza sessuale e altre violazioni dei diritti umani” a “ulteriori ritardi nell’accesso a cure mediche e riabilitazione adeguate”, ha sottolineato Türk.

“La legge punirebbe sia i migranti che coloro che cercano di aiutarli”, una demonizzazione delle azioni umanitarie che “potrebbe trasformarsi in un deterrente per il lavoro cruciale delle organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani”, ha aggiunto l’Alto Commissario, ricordando il pericolo di incremento dei respingimenti verso la Libia, luogo che “non può essere considerato un porto sicuro di sbarco”.

Türk ha quindi esortato il governo italiano a ritirare la proposta di legge, consultare i gruppi della società civile, in particolare le Ong di ricerca e soccorso, affinché si assicuri che il decreto sia “pienamente conforme al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto d’asilo e alle altre norme in materia, inclusa la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio in mare”.

martedì 14 febbraio 2023

In aumento chi vive per strada, tra loro molti italiani - 2.500 a Roma - L'impegno del Terzo settore

Corriere della Sera

Aumenta il numero di chi vive in strada o si adatta a soluzioni d’emergenza. I senza dimora concentrati nelle metropoli. FioPsd: “Bisogna superare le politiche emergenziali”. L’impegno del Terzo settore.

Fanno notizia quando muoiono di stenti o di freddo per strada, ma per ogni vita persa ce ne sono migliaia salvate da enti e associazioni che si prendono cura degli invisibili. Roma è la capitale dei senza dimora: quasi un quarto di tutti quelli che in Italia non hanno un tetto sotto cui dormire vivono nell’area metropolitana capitolina. “In città sono circa ottomila - racconta Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio - e un terzo di loro vive nelle strutture del Comune o della rete delle parrocchie e associazioni, un altro terzo dimora in alloggi impropri e di fortuna. Un terzo sta per strada”. 

Non sono soli, ma stanno aumentando. “Tante cose migliorano - aggiunge D’Angelo - sul versante dei servizi e dell’accoglienza anche grazie a una nuova sensibilità delle amministrazioni e all’aumento del 42 per cento dei posti letto in strutture più piccole e disseminate sul territorio. Negli ultimi cinque anni la Sant’Egidio ha strappato dalla strada, accompagnandole, più di 300 persone. Ma la crisi cronica che stiamo vivendo ne sta spingendo molti altre nella spirale della povertà”.

Non esiste un numero preciso dei senza dimora in Italia: l’ultima stima dell’Istat, datata 2021, è di oltre 96mila, ma nel computo ci sono anche quelli che pur non avendo una abitazione fissa non vivono comunque in condizioni di indigenza e possono tornare ogni sera sotto un tetto dignitoso, magari da parenti, amici o in strutture mobili. Nel 2015, il dato più recente specificatamente dedicato ai senza dimora in condizioni di marginalità, la stima fatta sempre da Istat con il supporto delle associazioni era di oltre 50mila.

Una parte consistente è composta da stranieri con o senza permesso di soggiorno, ma gli italiani sono in forte crescita. “È allarmante - spiega Caterina Cortese, responsabile dell’Osservatorio di FioPsd, la federazione nazionale in cui sono riunite circa 146 realtà che si occupano del fenomeno - l’aumento delle donne in genere e dei giovani problematici fuoriusciti da percorsi istituzionali che hanno perso rapporti con le famiglie di origine. 

E sta crescendo il numero degli italiani: oltre a quelli che hanno una storia di marginalità risalente nel tempo, c’è un’accelerazione dello scivolamento di nuclei che con la perdita del lavoro e poi della casa si ritrovano per strada”. 

di Giulio Sensi

lunedì 13 febbraio 2023

Suicida in carcere a 21 anni al San Vittore. Era da un mese in carcere per furto.

Fanpage.it
Detenuto di 21 anni suicida nel carcere di San Vittore: si è impiccato in cella
Il detenuto 21enne era recluso dal 31 dicembre a San Vittore, dopo un arresto per furto aggravato: è il primo suicidio in carcere del 2023 a Milano. Proprio nelle celle del penitenziario milanese, la scorsa estate, si erano tolti la vita altri due detenuti ventenni.


Ancora un suicidio nelle carceri nazionali. Quello di un detenuto 21enne, recluso nell'istituto penitenziario di San Vittore a Milano, è solo il primo del 2023 nel capoluogo lombardo: si chiamava Luis Fernando Villa Villalobos, peruviano, senza fissa dimora. Trovato impiccato in cella il 2 febbraio e trasportato in ospedale in gravissime condizioni, è morto nella notte di venerdì 10 febbraio.

A portare il 21enne dietro le sbarre di San Vittore, un arresto per furto aggravato e un processo per direttissima. Poi, dopo poco tempo, la morte dentro la sua cella. Per fare chiarezza sulla vicenda il caso è al vaglio del magistrato di turno Angelo Renna che, come da prassi, ha aperto un fascicolo necessario a svolgere gli accertamenti. Dalle prime ricostruzioni non emergerebbero comunque responsabilità da parte di terze persone.

Emergenza suicidi in carcere
Il primo suicidio dell'anno nelle carceri di Milano, coda di un 2022 che ha visto l'esplosione del fenomeno nei penitenziari di tutta Italia: ben 80 casi accertati nei 12 mesi dell'anno appena trascorso, ovvero il numero più alto degli ultimi 10 anni, mentre nel solo distretto della corte d'Appello di Milano (che comprende anche Busto Arsizio, Como, Lecco, Lodi, Monza, Pavia, Sondrio e Varese) l'anno scorso si sono uccisi 15 detenuti. 

Con oltre il 60 per cento di morti avvenute nei primi mesi di detenzione, molto probabilmente a causa dell'impatto traumatico contro la durezza della vita dietro le sbarre, e la stragrande maggioranza di vittime con condanne lievi, spesso con la prospettiva di uscire a breve dal carcere.
[...]

A cura di Francesca Del Boca